-“Osti Cabri!! ‘Na spüma?!”
-“Eeeehhhh…. fa calt! E po’ gò el pancreas che el me fa danàa! Adès vò a cà!”
Queste sono le parole che ci siamo scambiati io e lui, pochi giorni prima di ferragosto di fronte al bancone dell’Arci. Nell’ultimo periodo un po’ tutti lo abbiamo visto dimagrito e, cosa ancora più strana, era da qualche giorno che rinunciava al suo bicchiere di rosso tra le 18 e le 19 presso il circolo di Soresina. Ma nonostante la sua malattia e la certezza del suo destino il suo sguardo, ciò che più mi colpiva della sua figura, non ha mai perso la propria luce per un istante: sempre pronto ad osservare, studiare e scrutare tutto quello che, con molta probabilità, sarebbe poi finito su tela.
Questo è stato Paolo Cabri pochi giorni prima della fine. La notizia mi ha sconvolto e lasciato senza parole…l’ho scoperto il giorno stesso del suo funerale, avendo lavorato sia la domenica che il lunedì. Mentre mi stavo arrotolando una sigaretta in macchina mi è scappato l’occhio sui manifesti funebri e ho letto il suo nome. Di colpo ho pensato all’ultima frase che ci siamo detti, all’ultimo sguardo che ci siamo scambiati: entrambi con la solita ironia e il solito tono scherzoso con i quali abbiamo sempre interagito io e lui.
Cabri era un vero artista, uno nato per dipingere o scolpire; pensate che in gioventù lavorò da un marmista qui a Soresina e si licenziò dopo pochi giorni perché, secondo lui, per fare una lapide di marmo ci sarebbe voluta la giusta ispirazione, la vena artistica e non le urgenze o gli ordini di un datore di lavoro.
L’ultimo vero anarchico del paese, il più convinto degli anticonformisti della storia di Soresina lo si poteva vedere in giro in bicicletta per le vie del centro mentre si prendeva una pausa dalla sua attività artistica, con il suo cappello sempre in testa e la sua barba incolta che rafforzava ancor di più la sua personalità e la sua indole.
Nella sua carriera ha ottenuto premi importanti e riconoscimenti di qualsiasi livello ma si è sempre tenuto lontano dai pareri della critica e dal loro peso, fregandosene di chi pensava cosa riguardo le sue opere. Lui, con molta probabilità, soffiava una boccata del suo toscano in faccia alla critica.
Le sue tele rappresentano in pieno il suo anticonformismo: dai buontemponi in osteria alle rive dei fossi della sua (e nostra) amata campagna. Ogni volta che mi incontrava mi chiedeva: “Quant te sunèt amò?” interessato, nonostante l’età, a qualsiasi attività artistica dei più giovani nel nostro paese. Ogni volta che ho suonato all’Arci lui era sempre (o quasi) presente. Ha partecipato a tutti i venerdì di luglio in Piazza Garibaldi insieme ad altri pittori e sotto Natale lo si vedeva dipingere le vetrine dei negozi del centro.
Un altro episodio parecchio divertente, che vale la pena di essere raccontato, è questo: era lo scorso inverno, lui entra all’Arci e mi indica la sua cuffia di lana. La scritta “FEDERCACCA” mi fece ridere fino a non respirare più mentre lui tutto orgoglioso diceva: “Gò fat tirà ià la i a la me duna!”.
In ospedale Paolo ha chiesto fogli e matita e mi piace pensare che abbia smesso di respirare solo dopo aver firmato il suo ultimo disegno.
Concedetemi un’ultima frase in dialetto, ma credo che non ci siamo mai parlati in italiano io e lui: Oh Cabri! Adès basta spümi né? Varda de bif en bicer de chèi bon!!
Grazie Paolo per tutto ciò che hai fatto per noi e per tutto ciò che il tuo sguardo è riuscito a passarmi…
BEE LIBER!!!
CIAO CABRI
p.s. Un artista non andrebbe mai ricordato solo per le opere che ha fatto. Io, come chiunque ti abbia conosciuto, ti ricorderò soprattutto per la persona che eri.
Pier Solzi