L’onomastico sanno tutti che cos’è. Se uno si chiama Giuseppe sorride all’antivigilia della primavera, se invece si chiama Mortimer festeggia il giorno di Ognissanti e quello dopo, il due novembre, si strofina energicamente i coglioni. Ma non è questo il senso del nostro dissertare, bensì l’imbarazzo che deriva quando ti ritrovi di fronte al solito “precisino” insoddisfatto e sadico che, fingendo innocenza, ti chiede: “Ma dimmi, etimologicamente parlando, onomastico che cosa vuol dire?” Risposta: “Ti verrà bene un cancro!” Ma la pulce è entrata nell’orecchio e allora, vinto dalla curiosità, perché professo l’arte della parola ermetica, vado a vedere. E lì incominciano i casini, perché non è che uno se la cava facendo gli auguri a Giuseppe e a Mortimer e poi chi s’è visto s’è visto. No, in quanto l’Onomastica è la scienza dei nomi, la cui attribuzione si chiama, per l’appunto, Onomastikòs e guarda caso c’è sempre di mezzo la lingua greca, che non gli pare vero di poter rompere i marroni a qualcuno. A questo punto è quasi impossibile fare marcia indietro e allora, obtorto collo, lo studioso accorto si domanda: ma come si formano i nomi? Risposta: “Anche a te ti verrà bene un cancro”, perché all’improvviso si materializza nella mente una parola gigantesca che di per sé è uno scioglilingua: Onomatopeutica. Solo per imparare a pronunciarla senza inciampi e ingarbugliamenti vari, molti hanno fatto ricorso alle cure specialistiche del logopedista. Nel mazzo ci sono anch’io, che di mestiere faccio il “paroliere” e ogni qual volta mi riesce di sparare una cazzata monumentale godo come la lancetta di un contachilometri vibrante sui 230 all’ora. Sarà anche una scienza difficile, ma una Onomatopea ben costruita procura indescrivibili piaceri lombari. Prendiamo a esempio quella magistrale introduzione eseguita nella forma di coro a cappella, anni or sono, da Armando Celso, Teo Teocoli e Massimo Boldi: “(1) E tumb… e tutumb… e titera… (2) E tumb e tutumb e tutumb e tità…” Non faccio per dire, ma per tradurre in lettere quella geniale vocalizzazione mi ci è voluta una settimana intera e non certo per le parole, che nella loro semplicità evocano l’esoterismo rosacrociano, quanto piuttosto per rendere l’idea spaziale del ritmo, che è un adagio nella prima parte e allegro andate nella seconda. In conclusione: anche se in certe occasioni si è usi dire che “carta canta”, non sempre ciò corrisponde al vero e solo un oculato uso della punteggiatura è in grado di rendere brioso il testo.
Tutti in coro! Eeee… tumb… e tutumb e titera…/ E tumb e tutumb e tutumb e tità…
Beppe Cerutti