L’“alimento” è una merce in senso comunitario poiché, secondo la definizione analizzata, è un bene mobile, pecuniariamente valutabile, atto a costituire oggetto di scambi commerciali.

Gli alimenti possono assumere anche la qualifica di prodotti agricoli qualora siano compresi tra quelli enumerati dall’Allegato I al Trattato CE.

Anche agli alimenti considerati prodotti agricoli si applicano le regole previste per la circolazione delle merci in àmbito comunitario, fatte salve speciali disposizioni in deroga a tale regime che attengono alla disciplina delle Organizzazioni Comuni di Mercato (OCM).

Gli scambi infracomunitari di alimenti, sia che si configurino come merci sia che vengano considerati prodotti agricoli, sono, dunque, retti dal principio di libera circolazione, che può considerarsi un cardine fondamentale dell’intera struttura comunitaria.

Se si considera che il principio in esame presiede, come indicato, alla formazione di un unico mercato risultante dalla fusione di quelli nazionali, è logico argomentare che esso non riguarda il trattamento delle merci non destinate ad essere oggetto di negozi infracomunitari. Per individuare l’esistenza di una fattispecie meramente interna ad un Paese membro la giurisprudenza verifica che la disposizione nazionale non influenzi astrattamente, in alcun modo, il commercio infracomunitario, essendo, invece, ininfluente la contingente particolare situazione in cui si trova, de facto, l’operatore economico interessato.

Non esiste, pertanto, alcun ostacolo a conservare le peculiari caratteristiche, ad esempio, della pasta italiana o della birra tedesca, che i consumatori potranno preferire ad altre, liberamente importate, che non sono in possesso delle medesime qualità.

Ogni Stato membro può, quindi, prescrivere i requisiti dei prodotti alimentari con la sola avvertenza di inserire nella propria disciplina una clausola in base alla quale le derrate di altri Paesi possono essere importate nella composizione ricevuta nel luogo di origine.

Il diverso trattamento dei prodotti nazionali rispetto a quello cui sono soggetti gli alimenti di altri Stati membri può, tuttavia, determinare “discriminazioni a rovescio”, ossia maggiori oneri e vincoli per i produttori locali rispetto a quelli cui devono sottostare gli operatori esteri.

Per determinare l’origine degli alimenti non si pongono, rispetto alle altre merci, problemi specifici. Paese di origine di un prodotto è naturalmente quello in cui è stato fabbricato. Nel caso in cui le fasi di produzione si siano svolte in più Stati si considera “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

In applicazione a tale disposizione, al fine di stabilire il Paese di origine, è stato individuato il criterio del luogo in cui è stata effettuata la trasformazione economicamente e merceologicamente più rilevante.

(6-continua)

Donatella Colangione

Laureata in Giurisprudenza ad indirizzo specialistico in Dir. Internazionale a Bari e Dottore di ricerca in Dir. Pubblico a Pavia con borsa di studio sulla sicurezza agroalimentare.

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