Esco che ha smesso di piovere. Mi avvio per la Città Giocattolo notturna, anche se in realtà sono solo le 22.30. Una voragine dentro aperta dalla visione di Cobain – Montage of Heck, il docufilm che è stato proiettato nei cinema di tutto il mondo per soli due giorni, il 28 e 29 aprile, e che racconta la vita e la morte di Kurt Cobain. Sono passati 21 anni da quel 5 aprile del 1994, giorno in cui il leader dei Nirvana si sparò un colpo in bocca ponendo fine all’ultima grande rivoluzione che il mondo del rock abbia vissuto: quella del nichilismo grunge.
Ma non è certo una analisi sociologica musicale quella che vorrei fare. Non credo di averne neppure la capacità. Tornato a casa ho cercato negli angoli polverosi della mia camera le musicassette di Nevermind e In Utero e le ho appoggiate da parte allo stereo. Non posso ascoltare il nastro frusciante del disco che ha segnato gli anni ’90. Non ho più un mangiacassette. E’ fermo a metà, chissà su quale canzone, da anni, quel nastro che comprai il giorno della sua uscita nel 1991 e ascoltai per la prima volta quella sera andando da solo ad un concerto di Francesco Guccini a Lodi. Sempre stato schizofrenico musicale.
“I Nirvana sono come quel piatto preferito che mangi ogni tanto per non far diventare banale e ricordarti quanto è buono”. Me lo scrive una amica con cui mentre mangio una pizza converso sul film di Brett Morgen. Un film prodotto da Courtney Love e Francis Bean Cobain, forse, come commenta un musicista cremasco che adora Kurt tanto da avere le sue chitarre ad un mio post notturno su Facebook, per risollevare le sorti finanziarie grame. Infatti il biglietto di ingresso costa inspiegabilmente 12 euro. Ma chi se ne importa.
E’ stato per una sera l’ingresso ad un epoca che ricordo colorata e in bianco e nero. Epoca difficile per la Città Giocattolo e per noi ventenni che vedevano Seattle e la scena del grunge lontana. Ma anche vicina. Tutti a cercare di suonare i pezzi dei Nirvana nelle sale prove scalcagnate, “sono tre accordi”, diceva l’amico Bettinel. Lo dice anche Kurt nel film, “questa canzone è fatta con due note, questa e questa”.
In fondo il grunge è stato il punk della nostra generazione. Cannibalizzato dalle riviste e da Mtv. Ecco mi sto buttando sul sociologico. Non lo voglio fare. E’ troppo livida questa mattina in cui sto scrivendo. Ed era troppo bella la notte cremasca poi con Sarah Siskind nelle orecchie e quel Covered, intimo cantautorale disco del 2001 che sto consumando adesso.
Nel suo film Brett Morgen racconta di come nessuno riuscì a capire la solitudine e la voglia di vita, si credo che Kurt si sia suicidato per eccesso di voglia di vita, di un ragazzo di 27 anni che non era attrezzato a quello che gli piovve addosso da un giorno all’altro. Nessuno di noi era attrezzato in quegli anni. I plasticosi anni ’80 erano appena finiti. Dopotutto erano stati anni semplici. Bianco e nero, pop e dark… Anni di contrapposizioni elementari che era facile risolvere scegliendo dove schierarsi.
Gli anni ’90 no. Mi ritrovai a girare con la camicia di flanella che sbucava sotto il chiodo. Le contrapposizioni non funzionavano più. Perché la crisi, non quella economica degli ultimi anni ma quella di pensiero e di valori, era già lì. Non c’era più un posto dove schierarsi, c’erano i nostri morti, l’onda lunga dell’eroina anni ’80, le auto, i suicidi. C’era la Città Giocattolo che iniziava a dirti che saresti cambiato rimanendo immutato.
Per questo la visione di questa geniale pellicola mi ha aperto una voragine dentro. “Non surfare troppo sui ricordi se ti fa male”, mi ha detto una persona che mi vuole molto bene ieri notte, si anche se ho passato la sera da solo c’era un sacco di gente, per fortuna, che mi ha stuccato la voragine con pensieri sensati. Detti magari con gli occhi stanchi di chi ha lavorato troppo quel giorno, di chi adora come me quel piatto preferito ma oramai lontano anche se negli anni ’90 era piccolo.
Nel film Krist Novoselic, l’allampanato bassista dei Nirvana, quello dei tre che ha fatto la strada più quieta (non è morto, non è più una rockstar) dive che Kurt odiava, e lo ripete tre volte, sentirsi umiliato ed in imbarazzo, al contrario di lui che quasi ci si metteva volutamente nelle situazioni umilianti. Ecco forse la vera contrapposizione di quegli anni sta li.
Qualcuno voleva essere perfetto ma aveva troppo brufoli da nascondere e troppi sfoghi da fegato sottosopra. Qualcuno se ne fregava ma dentro bruciava. Ecco mi viene da fare il Gaber di qualcuno era comunista. Ma i valori politici erano già persi anche loro. Altro che riunioni dei comitati del partito. Massimo si andava all’Arci, un Arci perso nel nulla delle notti infinite, a bere del pessimo vino e ad aspettare di cadere nella voragine.
Emanuele Mandelli