Il cadavere di Libero, figlio di Liberto, venne ritrovato lungo la piega del fiume, detta di Riva alta, dove la sponda gira in maniera brusca e poi se ne va chissà dove. Un posto da pescatori, scosceso, dove c’è una bella buca profonda e limpida con dentro tanti grossi pesci, le cui leggendarie dimensioni erano, sono e saranno sempre oggetto di racconti esagerati. Giaceva a bocconi, con il viso in parte affossato nel fango, le braccia in parallelo al busto con i palmi delle mani all’insù e le gambe leggermente divaricate con i piedi rivolti all’interno. Sembrava un grosso fagotto buttato là alla svelta, abbottonato dentro un impermeabile fustigato dalla pioggia, che aveva preso lo stesso colore della terra fradicia. I passanti era strappati e la cintura abbandonata poco distante. A circa un metro rumoreggiava la corrente, che l’acquazzone notturno aveva trasformato in una fuga di caffelatte melmoso.

La sera prima, chiacchierando in confidenza col maresciallo, davanti a una tazzina di caffè rimorchiata grappa, il papà disse al compaesano graduato che il ragazzo non era rientrato a casa: “Sono sempre più convinto di aver generato un deficiente”. Giù al Sud, in un posto e in un tempo che a entrambi sembrava ormai lontanissimo, avevano frequentato le stesse scuole, compagni di banco alle elementari e poi per un paio d’anni alle commerciali: non avevano bisogno di tante parole per capirsi. “Libe’… è vago, come tutti i ragazzi della sua età, non ti deve preoccupare, è soltanto un poco strano…”

“Perché tu lo trovi strano uno che all’età sua invece di correre dietro alle sottane ti viene a raccontare di aver visto i fantasmi? Marescia’, quando noi eravamo creature e avevamo fame andavamo dal prete a raccontargli che c’era apparsa la Madonna e una minestra e due ceffoni saltavano sempre fuori, ma adesso quello di minestra ne tiene assai…”

Il militare arrossì, l’idea di sbertucciare il prete con la storiella dell’apparizione mariana era stata sua. Fratello numero cinque d’una mezza dozzina di scalmanati, col babbo messo comunale in odore di nostalgie monarchiche, hai voglia a farti passare la fame. Il compare, invece, stava tranquillo ché il vino nelle damigiane andava tutto su al Nord e di ritorno, oltre alle lirette, papà suo maneggiava dollaroni, franchi francesi e anche svizzeri. Lui dignitoso miserello con gli abiti usati prima dai maggiori e più volte rivoltati; l’altro benestante con tanto di genitore riformista nenniano, ben visto dagli amministratori locali. Per forza che poi ai figli gli vengono idee strane. Ma Libero deficiente non era, no. Vago, questo sì, incerto, perché anche ai giovanotti dell’oratorio piacciono le ragazze.

 

“Che cosa avete trovato?”

“Maresciallo, di tutto, siamo su un terreno umido e molle ed è piovuto per tutta la notte.” Il resto già lo sapeva, ma non voleva togliere ai “suoi ragazzi” il piacere delle rilevazioni professionali, “scientifiche”, come si dice al cinema. “Maresciallo, è un casino, qui ci sono impronte di stivali da pescatore (“Anselmo, che è stato il primo a ritrovare il corpo, ma che poi, per sicurezza, ha chiamato gli altri quattro fancazzisti che stavano lì intorno a far pastura e con la canna a portata di mano”), e di minute scarpe da ginnastica (“L’intera classe V/B della professoressa Cecilia, mannaggia a lei e al suo amore per la natura.” Già immaginava la scena: bambini che orrore, non guardate, non guardate, e almeno una ventina di mocciosi tutt’intorno a dire cazzo ma è il Libero e l’è morto).

“Vabbe’ e che altro?”

“Impronta di stivali in dotazione alla polizia urbana, situate proprio in mezzo alle gambe del morto” (“Il capo della Polizia municipale, uno che crede di essere Sherlock Holmes e per accertarsi che il morto fosse veramente morto gli è andato fin di sopra, e scommetto che si è anche piegato in avanti col busto”). “La zona è stata delimitata dall’interno, ed è come se ci fosse passato un battaglione” (“E figuriamoci se gli altri vigili non avessero voluto dire la loro!”).

“Maresciallo Moresco…”

“Ho capito. Adesso mi state per dire che ci sono pure le impronte d’ippopotami e coccodrilli, così siamo sicuri che da questa parti è passato il mondo intero e noi non ci capiamo una minchia!”

“No, marescia’. Però attorno a quei cespugli c’è qualcosa d’interessante.”

“Ah, finalmente un po’ di sospensione d’animo. La ‘saspens’, come si dice…” Si pentì immediatamente della battutaccia: “Calabiano, ma che cazzo stai dicendo? Quel poveretto è il figlio di un tuo amico. Era… Sei una bestia!”

Una macchia di vegetazione spontanea, in larghezza non più di un metro, rigogliosa in altezza, indifferente al cambio delle stagioni e resistente ai defolianti, ammesso che qualcuno avesse voluto prendersi la briga di toglierla di mezzo: le radici affondavano sotto la ghiaia della stradina che rasentava il fiume ed era cresciuta ingombrando le due discese che le giravano attorno, non più larghe di quattro spanne. Dal ciglio in giù un altro metro, poi terra e sassi si adagiavano mollemente a formare una spiaggia in miniatura.

Gli investigatori trafficavano con un paio di macchine fotografiche e righelli decimali. Sì, la cosa poteva essere rilevante ai fini dell’indagine. C’erano solchi di ruote, come binari attorcigliati tra loro (“ Forse un ciclomotore, vista la larghezza del battistrada”), e a fianco, sul lato destro, impronte di scarpe pesanti, diverse dalle altre. “Sembra quasi che il tipo sia uscito di proposito dalla ghiaiata, sia smontato dal mezzo, abbia girato attorno alla verzura, e poi se ne sia andato rimettendosi sulla stradina. E guardate qui, maresciallo: potrebbe essersi fermato; in questo spazio le molte tracce delle scarpe sembrano tutte rivolte nella direzione del morto; inoltre, dopo il cespuglione, gli pneumatici prendono una direzione leggermente diversa dalla precedente. Direi asimmetrica, quasi che il motorino, magari impantanato, fosse stato sollevato e un poco spostato per affrontare meglio la salita. I solchi sono meno accentuati. Certo è che per lasciare impronte così profonde… ‘sti motorini devono pesare assai.”

Un motorino? “Che tipo di motorino? I ciclomotori di oggi hanno ruote più larghe di quelle lì.”

“Magari un vecchio ‘garellino’, ne girano ancora da queste parti.”

“Bene. Appuntato! Chiedi informazioni alla Motorizzazione. No, non serve, i ‘cinquantini’ non venivano immatricolati. Prova con le associazioni amatoriali che ci sono qui intorno, sai.. quelle degli hobbisti e cazzate varie, magari salta fuori che qualche associato ha un Garelli o qualcosa di simile. Di corsa, perché qui tra poco ricomincia a piovere. A proposito, ma Libero com’è morto?”

 

Il tempo era ancora guastato quando giunse, finalmente, il rapporto dell’autopsia, riassunto dal medico legale: “Nessuna traccia di violenza. Morte naturale. Un infarto. Non beveva, non fumava e non assumeva sostanze stupefacenti. Certo che la vita è ben strana. Un tipo come quello lì, di costituzione piuttosto gracile, che se ne va a morire di coccolone cardiaco a Riva alta. Mah! Dal momento del ritrovamento, avvenuto all’incirca verso le 10, la crisi fatale potrebbe risalire a circa quattro, massimo sei ore prima. Dunque verso l’alba o giù di lì.”

“E a quell’ora sappiamo che aveva smesso di piovere, per riprendere un paio d’ore dopo. Almeno stando a quello che ci ha detto Sebastiano, anima fiscale che inizia a controllare le sue pertiche prima che si svegli il gallo. Ma la questione è un’altra: che ci faceva lì Libero, visto che manco gli piaceva pescare e le battone, attrattiva inconfessata quanto di pubblico dominio per i perdigiorno, alla ‘buca’ proprio non ci sono mai state? Ma… un infarto, ha detto?”

“Il ragazzo aveva seri problemi al muscolo cardiaco e una crisi sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento. Ma siccome l’unica sua attività agonistica, per quanto ne so dal rapporto dei suoi uomini, era giocare a dama all’oratorio, la cartella clinica risulta aggiornata al tempo delle medie superiori. Sappiamo che era gracilino e miope, perché gli occhiali ritrovati nella tasca della giacca sono piuttosto forti. Caro maresciallo, non si danni l’anima. Magari problemi di cuore… Ehm, mi scusi, date le circostanze la battuta è inopportuna. Però mi ha capito, un ragazzo introverso, un amore segreto e frustrato, la necessità di raccogliersi in solitudine, e poi… Insomma, magari una forte emozione psicosomatica. L’infarto mica chiede autorizzazioni o carta d’identità… E che mi dice delle ricerche sui motorini?”

Il maresciallo Calabiano Moresco guardò il medico di sottécchi, infastidito più dalla scarsità di risultati che dalla domanda: “Poco, quasi nulla. Quelli ancora in circolazione sono circa una cinquantina, la maggior parte appartengono a collezionisti della zona; tutto regolare, con accertate e costanti revisioni. Li tengono nella bambagia e li esibiscono in occasione di qualche manifestazione o sagra paesana; raduni di moto d’epoca e cose del genere. Comunque i controlli proseguono, ma non credo che se ne ricaverà molto. Se di ciclomotore si tratta, dev’essere di qualcuno che lo tiene in qualche cascina e lo usa per gironzolare tra i terreni. Qui in prevalenza coltivano granturco e lì intorno alla piega del fiume ci sono diversi appezzamenti. Abbiamo fatto qualche visita ma niente, a meno che non li tengano sotto il letto. E il Procuratore s’è scocciato.”

Dentro, però, gli rodeva qualcosa. Da qualche parte aveva ancora quel foglio spiegazzato che gli aveva dato Liberto la sera del loro incontro in piazza, prima di venire a sapere della disgrazia: “Guarda un po’ che mi scrive ‘sto scimunito?!” Gli aveva buttato un occhio, più per rispetto nei confronti del vecchio amico d’infanzia che per convinzione professionale. Però se l’era tenuto: “Vabbé, vedo che posso fare.” Entrambi sapevano che Libero, quando voleva eccedere in maleducazione diceva che un giorno o l’altro se ne sarebbe andato, ma poi finiva al circolo parrocchiale dove beveva una cedrata e si metteva a riflettere sopra una partita a dama. Se proprio voleva strafare si concedeva una partita a calciobalilla, perdendo regolarmente. Oppure andava al cinema in città e al mattino dopo l’incazzatura era sbollita.

“Ti devo spiegare, altrimenti mi prendi per matto e forse matto lo sono per davvero.” La scrittura era ordinata, i concetti espressi in maniera corretta: a scuola era sempre stato bravo in italiano e gli piaceva anche leggere. Insomma, un secchione. “Non sono venuto a cena perché… non te lo posso ancora dire, ma qui in paese succedono cose strane e ci sono ombre barcollanti che escono dalla sagrestia quando tutti i cristiani dormono. Appena ne so di più ti spiegherò. Scusami con la mamma. Ciao. L.” Di fatto quelle poche parole chiarivano un bel niente, semmai il contrario.

 

“Liberto, raccontami un’altra volta. Sei uscito per bere il caffè e hai trovato la lettera al rientro a casa, verso le 23. Tua moglie s’era già coricata da un pezzo, diciamo un’ora prima, dopo aver rigovernato? Può essere. Quindi il tuo figliolo potrebbe aver fatto capolino di nascosto tra le nove e mezzo e le undici. Poi è sparito e la sera dopo, quando ci siamo incontrati e mi hai fatto vedere il biglietto, di lui non sapevi ancora niente. Giusto?” Fece cenno di sì col capo, ma si capiva che era a pezzi. Di quella morte, così assurda è assolutamente imprevista, non riusciva a capacitarsi. Illogica, soprattutto per uno che, pur avendo battezzato e cresimato tutti i figli e tollerato che continuassero a frequentare la parrocchia, alla imperscrutabile volontà divina proprio non aveva mai creduto. Da meridionale atavico qual era e sempre sarebbe rimasto, se gli avessero raccontato che il figlio suo era finito morto sparato, di sicuro alla fine se ne sarebbe fatto una ragione, ma così… Stroncato da infarto a venticinque anni… ma quando mai?!

“Liberto, perdonami se insisto. Il referto medico dice che è morto per le cause che adesso sappiamo e un infarto non è un omicidio, ma pure io ci devo capire qualcosa di più. Aveva mai accennato a palpitazioni, affanni respiratori, affaticamento. Insomma, qualcosa che potesse far intendere un disturbo di quel genere?”

“No, ma del resto lo sai anche tu. Tra una partita al pallone e un libro, magari un breviario, preferiva sempre quest’ultimo. Con quelle letture, sì, a volte s’infervorava, magari al freddo e infagottato nel cappotto.”

Moresco rimase un attimo perplesso, la mente attraversata da un ritorno d’immagine: abbandonato come un fagotto inutile. “E di Riva alta, ne aveva mai parlato? Se riusciamo a capire perché è finito là, magari possiamo dare una risposta anche al foglietto che mi hai dato. Sappiamo che il picciriddu non era pazzo, né aveva mai lasciato intendere di esserlo, quindi una spiegazione ci dovrà pur essere!”

Che cosa c’era che non andava in quel ragazzo? Il padre quella sera l’aveva definito uno scimunito che insegue i fantasmi e non corteggia le femmine. Libero era timido, tutto qui. Nel cassetto della scrivania sonnecchiava il giornale locale che giorni prima aveva dato notizia della disgrazia. Il cronista aveva fatto il giro del paese e parlato col parroco, che ne lodava le attitudini pastorali ma che a volte doveva frenarne gli ardori; con gli amici; con alcuni addetti che lavoravano nella piccola azienda di famiglia, commercio di vini come da eredità patrilineare, ma con aggiunta di mediazioni agricole. Aveva detto la sua anche il sindaco e l’anziana maestra elementare. Ne era uscito un ritratto non dissimile da quello di tanti altri coetanei di famiglia benestante dedita al lavoro e alle disposizioni di Santa Madre Chiesa. Ecco, la stranezza era forse dovuta all’eccessiva riservatezza, cosa magari non del tutto conforme a chi nelle vene aveva pur sempre un frullato di sangue greco romano arabo normanno e spagnolo, ma i tempi sono cambiati rarefacendo gli incendi passionali. Ma quelli mistici? Qualche conoscente, forse per aggiungere un po’ di pepe, lo aveva definito, di volta in volta, ingenuo, privo di malizia, anima semplice. In altre parole, un “boccalone” cui potevi raccontare che gli asini volano.

“Riva alta…”. Liberto si stava tormentando una delle tante righe che gli solcavano la fronte: “Ricordo che quando i ragazzi erano piccoli, qualche volta li portavo con me alla ‘buca’, io pescavo e loro andavano poco più su a bagnarsi, dove l’acqua è bassa e la corrente ristagna. Nessun pericolo e poi lì c’era sempre qualche adulto, qualche famiglia a prendere il sole. Una volta, non mi viene in mente la ragione, Libero non volle andare coi fratelli e fece i capricci. Così restò con me. Sai com’è quel posto. È un enorme pozzo naturale. Per circa un paio di metri l’acqua ti bagna i piedi, a Libero gli bagnava il sedere. Poi non so come è finito dentro. Bada bene… Andò sotto ma non a fondo perché lo afferrai immediatamente… ricordo che lo agguantai per un braccio e quasi lo scagliai a terra tanto era stato repentino il mio gesto. Non so chi dei due fosse più spaventato, ma da quel giorno Libero non ne volle più sapere né del fiume, né della pesca e tanto meno della ‘buca’. I miei figli più grandicelli per un po’ lo presero in giro, ma quando minacciai cinghiate la questione venne messa in soffitta e amen.”

 

 

“Appuntato! A che punto siamo con i motorini?”

“Niente, maresciallo. L’ultimo motociclo di marca Garelli visto in libera circolazione da queste parti, con obbligo di assicurazione, era di appartenenza del postino Zanetti Santino, abilitato al servizio di consegna epistolare fino alla fine degli anni Settanta, poi pensionato e infine deceduto in quel di Cremona, sua città natale, all’età di anni 81.”

“Abilitato al servizio di consegna epistolare… Appuntato, ma stai parlando come un rapporto dei carabinieri!”

“È quello che sto scrivendo, maresciallo.”

“Va be’, va bene… ma adesso parlami da cristiano e non scrivere, che quello lo farai dopo. E poi?”

“Marescia’… un catorcio l’abbiamo trovato… ma è ricoperto di ragnatele, con motore ancora funzionante ma con le gomme a terra. Sta nella cantina di Zanetti Giuseppe, nipote del postino di cui sopra…”

“E come l’avete trovato?”

“Ce l’ha detto lui, perché era scritto sul giornale: gli investigatori dell’Arma stanno cercando un garellino che forse potrebbero essere così e così, e allora lui è venuto in caserma. Ha detto che se è utile per le indagini possiamo pure portarlo via, così gli liberiamo la cantina.”

“Eggià, perché noi adesso facciamo pure da deposito per ferri vecchi!”

“Maresciallo, così ha detto…”

“Vai, va. Scrivi il rapporto… Così gli liberiamo la cantina… Appuntato, se scrivi una stronzata del genere giuro che… E scrivi, va!”

“Agli ordini, maresciallo.”

“Mi sa che i fantasmi li sto cercando io…”

 

La gente del paese aveva ormai archiviato la morte di Libero: una disgrazia come tante altre destinate a finire nel dimenticatoio. Rubricato alla voce “in sospeso”, il fascicolo stava chiuso in un cassetto della scrivania del maresciallo, ma però fermentava nella sua testa cocciuta. Costruiva ipotesi su ipotesi, che in breve tempo crollavano come castelli di carte.

Quando gli capitava di potersi prendere una mezza giornata di riposo, si metteva in borghese e, inforcata le bicicletta, andava alla buca di Riva alta. Per un po’ di settimane aveva visto mazzetti di fiori. Poi scomparvero anche quelli, segno che Liberto e la moglie s’erano rassegnati. Nessuno avrebbe mai saputo perché quel povero disgraziato se n’era andato a morire in quel posto e in quanto al motorino, un vagabondo qualsiasi avrebbe potuto fermarsi per orinare e poi andarsene, probabilmente pochi minuti prima dell’arrivo del giovane. Ma perché toglierlo dalla strada per impantanarlo nel fango? Che ingombro poteva mai creare, visto che su quella striscia di ghiaia neppure i trattori ci passavano più di tanto? Eppure… Uno che muore d’infarto, cade come un fagotto? No, perché per quanto fulminante, un infarto lo senti arrivare. Come il mal di denti, quando c’è ti porti la mano dove fa male. Poi magari cadi anche in avanti, a peso morto, ma… non con entrambe le braccia lungo il corpo. Mah! Sarà così?

 

“Appuntato, che novità ci sono questa mattina nella nostra eterna lotta contro il crimine?”

“Un altro furto di rame, questa volta è toccato al cimitero di ***. In totale fanno quattro, le parrocchie sono in fermento e al comando provinciale sono un po’ incazzati. Poi una patente ritirata per guida in stato d’ubriachezza e… l’invito per l’inaugurazione della nuova sede della Lega dei panificatori. Si sono messi insieme in una mezza dozzina, ognuno con il suo negozio però adesso fanno il pane in quantità industriale, come alla catena di montaggio.”

“Però, ‘sti panettieri… abbattere i costi del personale e aumentare la produzione. E finisce che mangiamo delle schifezze.”

“Marescia’ non ci sono più i fornai di una volta… A proposito, ho sentito dire che si sono messi in contatto con il comando per assicurarsi la fornitura alle nostre caserme e dal comando le fanno sapere che sarebbe opportuna la sua presenza quando taglieranno il nastro. Firmato: il colonnello.”

“Magari anche col pennacchio, va be’ ho capito. E quando sarebbe la cerimonia?”

“Oggi a mezzogiorno. E visto che sarà presente anche il vescovo per benedire la prima sacra cottura, dal comando fanno sapere che sarebbe opportuno predisporre un picchetto… col pennacchio.”

“Cosa?! E chi ci mando? Santiddio, ma lo sanno lassù che abbiamo gli uomini contati?!”

“Ho già provveduto, maresciallo. Due colleghi si sono offerti volontariamente di saltare il riposo.”

“Offerti volontari? Ma se è almeno una settimana che qui non riposa più nessuno!”

“Mezza giornata in più, cosa vuole che sia?”

“Un giorno o l’altro qualcuno ci farà la pelle e già vedo il titolo dei giornali: abbattuti dal fuoco amico. Anche i fornai ci si mettono!”

“Comandi maresciallo!”

“Maresciallo un cazzo! I fornai di una volta… Sei un genio e io un somaro, perché avrei dovuto pensarci prima! Caro appuntato, datti una ripulita, fatti la barba e cambiati la camicia, ché all’inaugurazione ci vieni pure tu!”

“Marescia, so’ stato in piedi tutta notte…”

“Appunto, appuntato… Mezza giornata in più cosa vuoi che sia… E… aspetta. Chiama il medico, che mi deve spiegare come si muore d’infarto.”

“Ma… Agli ordini maresciallo.”

 

“Sì, caro maresciallo. Molti di noi hanno ancora quei gloriosi monumenti, anche se per le consegne a domicilio usiamo mezzi più veloci, motorette attrezzate o camioncini, ma a volte succede che qualche cliente di vicinato che si svegli all’ultimo minuto e allora il garzone inforca la bicicletta e parte a razzo. Qui in paese siamo in tre a panificare e ognuno ha il suo bel velocipede in magazzino. Personalmente ne ho un paio. Sono pesanti, ma non certo per il pane che devono trasportare. Ogni cesta ne contiene una ventina di chili. Se ci fossero dei contenitori più capienti, opportunamente fissati con gli elastici, il carico potrebbe essere maggiore, Di sicuro su quei portapacchi si potrebbero caricare mattoni. Venga, gliele faccio vedere.”

 

Le bici, con cavalletto a forcella sulla ruota posteriore, erano state sistemate presso la porta scorrevole del piccolo magazzino. Entrambe erano segnate dall’usura del tempo, ma una sembrava in migliori condizioni dell’altra. “Non si faccia ingannare, quella non la usiamo da mesi. Per dargli una ripulita dal fango il garzone usò il getto dell’acqua calda senza però provvedere ad asciugare e ingrassare le parti sottoposte ad attrito, freni, catena, le moltipliche, i cerchioni. Per un bestione di quel genere sono manutenzioni necessarie, altrimenti, col passare dei giorni e l’accumulo di polvere, ogni pedalata diventa un calvario. In altre parole, è rimasta all’aperto, accanto alla bocchetta dell’acqua, protetta solo da un telo di plastica che un poco l’ha preservata dalle intemperie ma non dall’umidità. Come vede, c’è ruggine e la catena avrebbe bisogno di un bel bagno di Svitol.”

Il maresciallo si fece dare un metro a nastro: i portapacchi misuravano 60 centimetri in larghezza per 70 in lunghezza. Abbastanza per farci sedere una persona. “Una davanti e una dietro, volendo farli viaggiare comodi”, disse il panettiere. “Quando eravamo ragazzi quel coso ci portava allo stadio in quattro, in piedi. D’estate, invece, s’andava alla buca di Riva alta. Proprio dove hanno trovato quel ragazzo, ricorda, vero? Il nostro passatempo preferito era il lancio in discesa. A quei tempi c’era sempre qualche furbo che scaricava detriti. Con i sassi facevamo un specie di tracciato solido. Uno si sedeva sul portapacchi davanti e l’altro, in sella, lanciava la bici per poi frenare bruscamente quando le ruote entravano in acqua. Con la forza d’inerzia si finiva quasi al centro della buca. Splash, un tuffo e risalita con urlo e commento: Cazzo è gelata! Quando posso ‘sta storiella la racconto sempre e se capita qualcuno, maresciallo, che gli racconta che si prendevano i pesci con le mani non ci creda. Scomparivano il sabato pomeriggio per riapparire al lunedì.”

“Chi ha usato questa bici per l’ultima volta?”

“Ugo, mi pare. Il figlio di quel poveretto che faceva l’operaio alla Metalelettrica. La famiglia abitava a ***. Il ragazzo lavorava per noi come garzone di bottega e fattorino, poi ho dovuto licenziarlo perché troppo spesso si presentava al lavoro ubriaco. Sa, dopo la morte del padre era molto cambiato… e anche gli impasti del pane. Una mattina si presentò talmente sbronzo da non reggersi e infatti finì a piombo dentro un sacco di farina. Quando me la chiedeva, però, gli lasciavo usare la bici.”

“Appuntato, manda un’auto a prendere questo Ugo. Le biciclette intanto le prendiamo noi e dica a suoi colleghi che manderemo a ritirare anche le loro.”

 

Il rapporto portava la data di vari mesi prima. Se lo ricordava: “Appuntato, che racconta il mattinale di oggi?” “Un incidente sul lavoro al termine del turno di notte alla Metallelettrica. Purtroppo mortale. Pare che l’incidente sia dovuto all’imprudenza. A lasciarci le penne tale Bonomelli Serafino, anni 48, vedovo con un figlio, Ugo, 23 anni di muscoli ma esigui di buon senso. Dopa la morte della moglie, nonché madre, i due s’erano trasferiti presso l’abitazione del nonno paterno, una pensione da morto di fame con una sete inesauribile, e non certo di tisane.”

 

Una storia triste e come tante altre percorsa da un surrealismo tragicomico, se non fosse stato agghiacciante. Libero aveva sentito crescere in sé la vocazione al sacerdozio. “Una fiamma che lo stava divorando”, così disse la madre in gramaglie al maresciallo Moresco intento a rimettere insieme i tasselli della vicenda. “Trovava che il parroco fosse troppo permissivo.” “È vero”, disse quest’ultimo, “avevo constatato che dalla cantina della sagrestia mancavano alcune bottiglie di vino, uguale a quello che si usa per celebrare la messa, che però tengo in altri contenitori. Ma da ciò a sporgere denuncia… Andiamo… Conosco abbastanza bene i miei polli, pardòn… le mie pecorelle…”

“Dissi che se mi avesse denunciato l’avrei ammazzato”. Ugo piangeva, consapevole soltanto allora della cazzata che aveva combinato.

“Scellerato profanatore, iconoclasta sacrilego!” Libero aveva gli occhi fuori dalle orbite e le parole gli uscivano dalla gola come sibili. Con l’indice indicava la sporta contenente una mezza dozzina bottiglie di vino, ansimava in preda a un furore incontenibile: “Stai trafugando il sangue di Cristo!” Sopra la testa gli ballonzolava una lampadina ingrigita dalle ragnatele e da putredini di mosche. Terrorizzato, Ugo afferrò il manico di una vecchia vanga facendolo roteare. Colpì il muro più volte, minaccioso: “T’ammazzo, spia merdosa!”

“O Dio mio, questo scellerato sta rubando il sangue prezioso del nostro Salvatore. Signore fermalo…” “E tu fermati, nel nome di Cristo!”

“Fermati… Nel nome di Cristo…”

“No signor maresciallo, neanche l’ho sfiorato. Tirai un altro paio di bastonate dentro un sacco di non so che, mettendomi a ridere e a fargli il verso… Poi Libero si portò le mani al petto e cadde sulle ginocchia. Allora presi la borsa con il vino e uscii. Nonostante la pioggia, all’oratorio stavano ancora giocando la partita notturna. Raggiunsi il retro del fornaio e presi la bici, so come si apre il cancello.”

“Quindi quando Ugo lasciò la sagrestia Libero era ancora vivo…”, commentò l’appuntato cercando di dare ordine alle annotazioni che poi si sarebbero dovute trascrivere nel rapporto.

“Sì”, disse a se stesso Moresco, “E l’autopsia lo conferma, perché la morte è sopraggiunta all’alba o giù di lì. E all’alba, con il cervello ancora semiaffogato dentro i postumi di una sbronza di proporzioni fluviali per essersi scolato tutto il vino, Ugo fece ritorno sui suoi passi, ‘per vedere se quel pirla era ancora lì.’ E lì era, piegato su se stesso, ma stavolta morto. Rimane da capire come abbia potuto agire con tanta freddezza e lucidità ma sta di fatto che si caricò il corpo sulle spalle e salì le scale della cantina. Lo mise a cavalcioni sul portapacchi anteriore della bici fissandolo al manubrio con la cintura dell’impermeabile e pedalò di buona lena, si fa per dire, canticchiando sommessamente una canzoncina sconcia. Non era la prima volta che faceva una cosa del genere con qualche occasionale compagno di bagordi. Con una mano guidava e con l’altra teneva il cadavere per la collottola, come se reggesse un ubriaco. Cantando sotto la pioggia. E così, se anche qualcuno lo vide, non ci fece caso. Il resto della storia lo conosciamo.”

Sembrava un grosso fagotto buttato là alla svelta.

 

Beppe Cerutti

 

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