Cari ragazzi, oggi parleremo dei “rügamànàsciâ”, ceppo etnico che ebbe il proprio momento di massimo splendore durante l’era dinosaurica anteriore. Per capirne l’importanza è necessario ricorrere all’etimologia del termine, che risulta infatti essere composto dai verbi attivi “rugâ” (tramestare) e “mànàsciôn” (pronto a menare le mani).

In altre parole, secondo l’assunto del primigenio idioma longobardo del quinto secolo, gente a cui non devi rompere la balle. Ad essi, infatti, si rifà la vulgata popolare secondo la quale, ancora oggi, le popolazioni delle valli subalpine risultano essere di carattere piuttosto spigoloso, ma non per questo asociale, tant’è che se qualcuno di noi avesse la fortuna di entrare nelle loro grazie, una cirrosi vinaiola non gliela toglie nessuno.  Gente tosta dalla testa dura, dedita al lavoro per far studiare i figli, ma anche alla crapula quando i figli se ne vanno fuori dai coglioni a cercare fortuna per il mondo.

Il momento fondamentale della formazione delle nostra cultura, e anche della storia patria, si ebbe quando alcune popolazioni del sud, in particolare le calabresi, le siciliane e le sarde, si stancarono di respirare caldo e e sputacchiare cicale. Avevano sentito parlare degli effetti benefici, per le vie respiratorie, delle nebbie padane. E così, mentre le baionette regie portavano il “nuovo ordine sabaudo” dove nessuno ne sentiva il bisogno, dai piedi del Monviso alla plaghe malsane del Polesine avvenne uno scontro epico tra teste dure. Che come tutte le teste di pietra, tra una fessura e l’altra, videro crescere l’erba del compromesso. A sostegno delle rispettive identità inventarono il cemento armato, ma anche i “rügamànàsciâ” della prima ora accettarono l’idea che i pomodori maturi e rossi sono più buoni di quelli verdi, duri e acidi. Magari con un mezzo cucchiaio di olio verde pugliese.

Il resto? Vedete un po’ voi. Liberi ragazzi, liberi.

Beppe Cerutti

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