Sono figlio unico e a tale proposito mia madre, santa donna, è vissuta con un inestinguibile rammarico: “Ho messo al mondo un pirla.” Il primo allarme si manifestò quando la maestra elementare le fece arrivare una nota di richiamo a mio carico: “Signora cara, sua figlio non si applica.” Ne seguirono molte altre, più o meno dello stesso tenore, alcune anche molto dure, cariche di inquietanti ammonimenti: “Signora cara, se va avanti così, suo figlio finisce al Beccaria, oppure al manicomio.”
Vai a spiegarle che nella mente di un bambino la visione del mondo è diversa da quella di un adulto. Morale: “Figlio mio, o ti dai una regolata o finisci in collegio.”
Morale alternativa? Il primo gennaio del 1957 scappai di casa in combutta con la figlia della maestra la quale, però, mi abbandonò mezz’ora dopo. Non perché spaventata dal gesto inconsulto, comunque gravido di nefaste conseguenze, quanto piuttosto dalla vacuità delle mie precoci riflessioni.
Da allora sono passati esattamente sessant’anni. Dentro la nebbia che soffocava la strada e che andava verso Chiaravalle, ci tenevamo per mano. Avremmo chiesto asilo ai frati delle cinquecento ciribiciaccole. A un certo punto ricordo che mi guardò allibita e con stizza sciolse la stretta delle mani: “Ma che cazzo stai dicendo!? Tu sei scemo, io torno a casa.” (Le parolacce si usavano già allora e le dicevano anche le figlie delle maestre).
Che cosa avessi detto di tanto grave non ricordo, ma ancora adesso sono convinto che scappare di casa a undici anni fa bene alla salute, almeno a quella mentale, perché ti permette di guardare al futuro con serena incoscienza.
Ps. Cara mamma, tu hai messo al mondo un genio, soltanto che non mi applico.

Beppe Cerutti

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