Tralasciando l’origine veneziana e insistendo sul dialetto milanese, per codega si deve intendere  “cotenna”, vale a dire un involucro naturale ricavato dal porscèll che avvolge un impasto di carne suina meglio noto come codeghin oppure sàmpètt. I suddetti prodotti, messi a bollire, rilasciano grasso in abbondanza il cui contatto risulta appiccicaticcio alla pelle umana.

Da questa sintetica descrizione possiamo ricavarne significative metafore. Cominciamo dall’inizio: il porco è animale un poco ombroso ma soprattutto istintivo: se vede svolazzare una sottana non capisce più un cazzo e, per autocombustione, trasuda. Ma non solo. Siccome non è scemo, per togliersi di dosso l’arrapante eruzione ghiandolare tende a ricercare umori di genere chimicamente complementare. Mal che vada, ci si struscia e l’odore rimane addosso. Chissammai!

Vivere una vita da codega non è facile, perché in giro ci sono più sottane che belle giornate di sole e si vive sempre con un dubbio: sono più belle le sottane o le giornate di sole? Da uranico vado avanti per la mia strada, ma se metto i piedi per terra… Adesso si chiama consapevolezza tellurica ed è risaputo che se un codega pensa di poter coprire la terra senza conseguenze, fomentati dalla ginecocrazia, i preservativi entrano in sciopero. Tempi duri. E pensare che ai miei tempi, in quel di Milano, era invece un titolo di merito: codegare era uno dei tanti modi dire per identificare uno sbarbatello che corteggiava una ragazza e non mollava. E neppure lei.

Beppe Cerutti

 Da un’idea di Denis Guerini
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