Andare ad urlare, al freddo, nella scalcagnata sala prove di via Brescia, il lunedì sera, non era proprio la cosa che avevo voglia di fare. Due mesi secchi dopo aver deciso di fondare i Medalllo avevamo trovato un luogo dove provare, in una cascina abbandonata nella vicina periferia della città giocattolo, avevamo trovato più o meno la strumentazione, avevamo più o meno deciso che tipo di canzoni saremmo andati a fare e avevamo più o meno iniziato a lavorarci. Insomma in due mesi non avevamo fatto quasi un cazzo. I momenti in sala prove erano stati in tutto 4 o 5, più che altro stanchi pomeriggi del sabato. Lavoravamo già tutti e la voglia di cambiare il mondo della musica della città giocattolo era sfumata più o meno assieme all’alcool nel pomeriggio del primo gennaio. La passione per la musica no.
Continuavamo a trovarci a casa di questo o quell’altro a cercare di scambiarci più musica possibile. Un disco via l’altro, decine di pezzi di vinile che stavano forgiando la storia del metal e la nostra. La velocità con cui il mondo del metal stava girando attorno alla Gerico della classifiche stava aumentando ogni giorno di più, sarebbe aumentata di molto il 3 marzo del 1986, il giorno in cui in tutto il mondo uscì il terzo disco dei Four Horseman. Master of puppets non è un disco qualsiasi dei tanti fondamentali usciti nel 1986, è il disco che tutti i metallari di ogni tempo metteranno sempre nella top 10 dei migliori dischi di tutti i tempi. E’ il disco che troverete in qualsiasi top 100 della musica in generale, che sia stilata dagli spocchiosi giornalisti di Buscadero con il suo blues americano, che sia redatta da una vecchia cariatide del rock anni ’70 o da un fighetto nato con il punk di ritorno. Master of puppets sarà sempre presente. Se volete un solo disco per capire cosa è il metal quel disco è Master of puppets.
E così mentre la prima grossa crepa si apriva sulle mura di Gerico noi non riuscivamo ad arrivare al termine di una sola canzone che fosse una. Certo non avevamo scelto un repertorio facile. Oggi il concetto di tribute band è entrato a far parte del sentire comune dei fruitori di musica. Ci sono quelli che seguono questa o quella tribute band come se fosse l’idolo originale, ridicoli. Tutti i maggiori artisti hanno una band tributo ufficiale e decine di altri cloni. Ma nel 1986 era una cosa ancora non assodata, anzi, quasi una stranezza. Noi eravamo, circa, una tribute band ante litteram.
Avevamo scelto come numi tutelari gli Iron Maiden che erano giunti in quell’anno allo snodo fondamentale della loro carriera. A metà tra paladini della Nwobhm e band di culto mondiale, che ancora oggi sono, nonostante dal 1988 non azzecchino più un disco. Nella testa di tutti risuonavano ancora le note di Powerslave il disco che nel 1984 aveva convinto anche il regista Dario Argento a mettere una canzone della vergine di ferro in un suo film, Phenomena.
Scegliere come prima canzone da coverizzare Aces hight, l’opener di quel disco, non fu un idea geniale. Soprattutto per me. Bruce Dickinson, il cantante degli Iron, iniziò a venire chiamato, proprio dopo l’interpretazione di quel brano, Air raid, sirena antiaerea. La canzone, infatti, racconta di un attacco aereo e attacca più o memo con queste parole: “ecco la sirena che annuncia l’attacco aereo, poi il rumore della contraerea. Diamoci da fare, dobbiamo decollare, bisogna salire e sferrare l’attacco. Salta nella cabina e accendi i motori, togli i blocchi non c’è tempo da perdere”.
Neppure noi avremmo dovuto perdere tempo su quella canzone, ipertecnica e difficilissima.
Veniva già meglio il resto del repertorio che avevamo scelto. Alcuni brani dal primo disco degli Iron Maiden. Innanzi tutto alla voce c’era Paul Di Anno che non aveva certo l’estensione vocale di Dickinson, insomma a cantare quei brani ci arrivavo senza sgolarmi. La versione sferragliante di Running free fu forse il primo brano che portammo al termine. Al termine è una parola grossa, tra ripartenze e attacchi. Con le due chitarre che, più o meno, c’erano e la sezione ritmica che invece andava per gli stracazzi suoi. Che la band fosse spezzata in due lo si capiva già da subito. Massimo stava diventando sempre più bravo, gli altri arrancavano.
Dopo quattro o cinque prove la sua notorietà da nuovo axeman locale cominciava a girare tra gli altri gruppi in cascina e in città. Ma per fortuna eravamo tutti troppo giovani per interessare agli altri.
C’erano quelli che avevano già trent’anni e facevano le cover dei Pink Floyd nello studio che aveva pure l’aria condizionata, laggiù nel paesello dove saremmo finiti anche noi in capo a qualche mese. In via Brescia c’erano quei devastati di 25 anni che facevano hardcore punk. Brani di 40 secondi vomitati a duemila all’ora, e poi noi. Un’anomalia per i tempi. Certo dopo il 3 marzo del 1986 nel mondo nulla sarebbe più stato uguale ad oggi. Solamente l’ascolto delle prime note di Battery avrebbero convinto migliaia di punkettoni o di madonnare ad abbandonare le loro passioni e a buttarsi nel verbo del metal.
Di li a pochi mesi i Metallica sarebbero arrivati in tournée in Europa. Ma di li a pochi mesi sarebbe anche morto Cliff Burton, il baffuto bassista che si sarebbe vinto a poker il diritto di stare nell’unica cuccetta del tour bus che stava portando la band in giro per il vecchio continente e quindi il diritto di morire nello schianto che avrebbe coinvolto il pullman la notte del 27 settembre del 1986, in Svezia, dopo lo show di Stoccolma in uno stupido incidente nella cittadina di Ljungby.
Piansi quando lo seppi dalle colonne di HM, la rivista che nel frattempo si era imposta nel mondo metallico italiano come unica vera voce. Lo seppi più di un mese dopo, altro che il mondo in diretta dei tempi di internet.
Leggevo avidamente la rivista per cercare come investire i 14 fogli da mille lire che avevo risparmiato e trovai la notizia. Master of puppets lo avevo già macinato nella copia in cassetta che mi avevano registrato. Il giorno dopo lo comperai in vinile. Dalla data di uscita del disco alla data di morte di Cliff passano solo poco più di sei mesi. Ma nell’iconografia del metal sono un’era geologica.
A marzo si era aperta la prima crepa nel muro della classifica, a settembre tutto stava già crollando, tutto era già cambiato. Non per i Medalllo. Sicuramente non quel lunedì sera in cui ci si trovò in sala prove senza arrivare al termine del nulla. Dopo il solito paio d’ore inconcludenti rimanemmo io e Stefano. Lui timidamente attaccò Party girl degli U2, non pensava che la conoscessi, invece Under a blood red sky, il mini album live che gli U2 avevano cavato dal concerto del 20 agosto del 1983 al Red Rock di Denver, Colorado, era piaciuto anche a me.
Stefano si stupì quando cominciai a canticchiare: “i know a girl a girl called party, party girl. I know she wants more than a party, party girl. And she won’t tell me her name Oh no, not me”.
Abbassò gli occhi sulla chitarra sorridendo e proseguì a suonare la delicata canzone, che nel repertorio della band di Dublino rimane ancora un brano oscuro e poco conosciuto.
In tutto il mondo sferragliava la locomotiva dei Metallica e noi perdevamo tempo su una cazzo di canzone di secondo piano mentre gli altri fuori fumavano.
La prima puntata QUI