Genio precoce dotato di fervida fantasia, non si lasciò affatto impressionare dalla lapidaria e insindacabile definizione di un certo Max Planck, una “capa tanta” da premio Nobel: “È impossibile ottenere il moto perpetuo per via meccanica, termica, chimica, o qualsiasi altro metodo, ossia è impossibile costruire un motore che lavori continuamente e produca dal nulla lavoro o energia cinetica.”
Fece spallucce e tralasciò le ricerche sulla termodinamica ma, sorretto com’era da edificanti letture fin dalla più tenera età, non ripudiò la fascinazione che su di lui aveva sempre esercitato il grande tema della perpetuazione, soprattutto la perpetuazione della specie. Perpetuare, dare continuità nel tempo, addirittura immortalare. Il tempo, appunto, gli fornì lo spunto per osservare più da vicino i processi della natura, ivi compresi quelli connessi ai propri simili e poco importa se gli capitò d’inciampare anche nella loquace e inaffidabile “perpetua” di don Abbondio. Non si lasciò scoraggiare e con zelo proseguì negli studi. In un guazzabuglio di disordinate letture giunse a vivere sulla propria pelle il terribile sconforto dello scienziato che non riesce a trovare risposte né sull’origine né sulla fine: “Perché se tutte le cose hanno un inizio non è detto, cazzo, che debbano per forza avere una fine.” Si arrovellava in squinternate annotazioni calligrafe consumando litri d’inchiostro e centinaia di pennini e quando, redarguito dalla madre, si accorgeva di essersi sporcato di tintura atramentaria fin sulla punta del naso, diligentemente si recava nello stanzino di decenza per darsi una ripulita, senza però smettere di elucubrare: “D’accordo, il singolo individuo si spegne, ma nonostante ciò la specie aumenta di numero, quindi continua. Ciò dovrebbe valere anche per la materia inanimata.”
Ebbene, questo mio lontano antenato, che mi ha lasciato in eredità molta fantasia e altrettanta confusione, non riuscì a passare alla Storia maiuscola, ma a quella minima, famigliare, sì. E la folgorazione la ebbe proprio mentre si stava lavando. Notò infatti che il pezzo di sapone che aveva tra le mani era formato da una parte per così dire nuova sulla quale era stata appiccicata, previa umettatura, l’ultima “scheggia” del pezzo precedente, di modo che nulla andasse perduto. La madre gli spiegò che così si faceva da sempre, anche per non buttare via ciò che comunque poteva essere riutilizzato.
Da allora la “perpetuazione” del sapone sul sapone è diventata una regola costituzionale verso la quale tutti noi, in famiglia, siamo tenuti al massimo rispetto. Per quanto mi è dato sapere, la saponetta che in questo momento sto adoperando, è la diretta discendente, soprattutto in spirito, di un antica barra marsigliese della metà del XIX secolo.
Beppe Cerutti