Oggi si corre l’edizione n° 105 della Milano Sanremo, classicissima di primavera che apre la stagione internazionale ciclistica. Un appuntamento con palle e contropalle che noi amatori ormai sedentari non possiamo assolutamente disertare. Ci affidiamo al televisore e già alle 9 siamo qui all’osteria. Pubblico numeroso, compresi alcuni bambini. Della combriccola sono il decano e, in attesa della partenza, vengo richiesto per raccontare un aneddoto delle mie lontane esperienze di appassionato delle due ruote. Certamente non mi faccio pregare.

19 marzo 1963, martedì, ricorrenza di san Giuseppe, che allora era come la domenica e nessuno andava a lavorare perché era festa comandata.

“Ma tu eri già vivo?”

A me, a volte, la voce dell’innocenza che sgranocchia patatine mentre dovrebbe essere a casa con il naso immerso in un tazzone di latte caldo, mi fa girare i cosi. Quindi lancio l’appello: “Il padre del moccioso è pregato d’intervenire, altrimenti a pranzo festeggiamo all’antica maniera comunista!” Messaggio ricevuto e impertinente spedito all’oratorio.

Correva l’anno 1963… Ma è necessario raccontare gli antecedenti, partendo da Bar Sport di piazza San Luigi, quartiere alle spalle dello scalo ferroviario di Porta Romana, Milano periferica in piena crescita economica.

Il Bar Sport: un postaccio frequentato da operai che per darsi arie da persone di mondo s’erano messi a bere il “vèrmuttino”. Erano diventati talmente “fini” che il rappresentante della Carpano non raccoglieva più l’ordinazione per singole bottiglie bensì per autocisterna. Fu il primo a mettere a punto quella che oggi, con un orrendo neologismo, viene definita “la strategia della fidelizzazione”. E qui inizia la breve storia della mia prima e ultima Milano Sanremo, 54° edizione vissuta in diretta.

Disse il mercante di liquori: “Chi ha l’automobile?”

“Pronti”, rispose mio zio, bauscia targato Doc: “500 nuova di pacca, tettuccio apribile fino a metà. Anticipo e tre cambiali già pagate. In salita va anche senza spingere con quattro passeggeri a bordo, comodi meglio che sul tram nell’ora di punta.”

“Facciamo cinque un po’ sacrificati”, ribadì il subdolo piazzista, “perché m’è venuta un’idea della madonna!”

“Sarebbe?”

“Seguiamo la corsa. Sulle portiere ci scriviamo Carpano & Bar Sport, segue indirizzo in piccolo. Prepariamo una dozzina di cestini con dentro un sanguis abbondante e una bottiglietta mignon di Punt&Mess, che poi passeremo sottoforma di rifornimento ai corridori della Carpano. Con un occhio di riguardo per Nino Defilippis, portacolori della ditta e campione d’Italia. Per il fotografo e per il bandierone bianconero ci penso io.”

Detto e fatto. E mentre a Milano ancora non era stato dato il via alla gara, noi eravamo già sul monte Berta, una scollinata importantissima ai fini della corsa, perché li si capiva chi ne aveva ancora da spendere e chi no. Non m’invento nulla, a parlare sono le cronache dell’epoca, perché del “Cit” (così era stato ribattezzato dai tifosi Defilippis), dopo il precedente aggancio ai fuggitivi sul Turchino, non vi era più traccia.

Indecisi sul da farsi, mentre i minuti passavano senza che alle viste si presentasse almeno qualche ciclista bianconero, alla fine decidemmo democraticamente di rifocillarci con il contenuto dei cestini, vèrmut compreso. Sarà stata la stanchezza, sarà stata la delusione, sarà stata l’efficacia dell’Artemisia, sta di fatto che quando passò il gruppone eravamo placidamente addormentati. Più tardi, molto più tardi, sulla strada del ritorno, venimmo a sapere che la gara era stata vinta dal francese Joseph Groussard, che così festeggiò il giorno dell’onomastico, mentre il nostro Nino Defilippis venne accreditato del 18° posto. La vicenda, ovviamente, venne commentata in vario modo e alla fine i “tennici” del Bar Sport stabilirono che avevamo sbagliato appostamento: per il rifornimento avremmo dovuto metterci ai piedi del Turchino.

Beppe Cerutti

 

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