“Lupus in fabula” per noi non è assolutamente una locuzione latina. È il nome del cane da guardia che l’assemblea dei condòmini decise di adottare alcuni anni prima in quanto, batuffolo abbandonato ma già allora irriverente, si trovò alla mercede di un terrificante temporale agostano: raccolto dalle mani premurose della signora Ortensia, vedova di lungo corso e residente al secondo piano, divenne ben presto la mascotte del palazzo. Palazzo si fa per dire, ché nei fatti si tratta di una modesta costruzione in stile post-bellico anni Cinquanta, però isolata rispetto ai circostanti palazzoni  e dotata di un piacevole prato, con una mezza dozzina di alberi fronzuti e recintata da una inferriata che ne definisce in termini inequivocabili il carattere di proprietà privata. Insomma, una piccola e inaccessibile isola verde circondata da un mare di cemento. Gli abitanti del quartiere, invidiosi perché esclusi dai nostri ameni passatempi, l’hanno ribattezzata con una definizione al curaro: il gerontocomio dei folli. Di fatto i cosiddetti “nuclei familiari” ivi residenti ammontano a nove, per un totale di una dozzina di persone, tutte in pensione e in prevalenza di genere maschile. In quanto alla “follia”, ce la siamo proprio stragoduta, perché (sempre in tempi passati) votammo a larga maggioranza la proposta di realizzare una pista per il gioco delle bocce e un piccolo bacino artificiale modello Jacuzzi per la pesca alla trota. La signora Ortensia, insieme alla Felicita del piano terra, cedette nel rifiuto solo quando le venne assicurato che non avrebbe dovuto sostenere alcuna spese. “Bene”, disse, “ma le trote per il ripopolamento le scelgo io, perché voi quando si tratta poi di cucinarle. Con i fornelli ci  capite un beata cazzo!” Punto. Approvato all’unanimità.

Questo è il quadro generale entro il quale fece la sua comparsa “Lupus in fabula”. Decidemmo che sarebbe diventato il “ringhioso” difensore della nostra privacy, con alloggio fisso nel giardino: una cuccia con il riscaldamento autonomo e il tetto alpino, di quelli ad angolazione acuta per favorire lo slittamento della neve in caso di abbondanti precipitazioni. All’interno optammo per una sistemazione a due livelli: sopra la mansarda per i riposini, mentre al piano terra un’area ludica con adeguate attrezzature, osso finto compreso. Le spese sarebbero state divise in millesimi, escludendo le donazioni volontarie. Mi feci carico dell’insegna canonica, quanto obbligatoria secondo le disposizioni comunali,  da esporre in maniera visibile all’ingresso della proprietà:  “Attenti al cane”, in un formato che però venne definito esagerato perché incompatibile con le dimensioni del cancelletto d’accesso. Tuttavia, con qualche sforbiciata qua e là risolvemmo il problema.

In linea di massima eravamo dunque a posto, sennonché il professor Wolf, già insigne cattedratico di origine tedesca, nonché raffinato dicitore, pose un interrogativo che ci lasciò tutti quanti basiti. Disse: “Ma con il mecònio canino come la mettiamo?”

Mi frugai in tasca e poi comunicai all’assemblea che al momento ne ero sprovvisto.

“Anca mì” aggiunse l’Ortensia spalancando verso gli astanti la sua capiente borsa.

Un altro paio, dal passato un po’ turbolento, sostennero che con l’oppio avevano chiuso da tempo.

Fu una rincorsa ai dizionari, compreso quello dei sinonimi e anche dei contrari, ché non si sa mai! Dopo di che redarguimmo causticamente l’inclita teutonico: “Mangia patate dell’ostia, potevi mica dirlo subito che è un sinonimo di escremento?!”

Facemmo mente locale. Dato che un cane non è un gatto, che sa che deve cagare nell’apposita lettiera, ci dividemmo a turni per salvaguardare del decoro igienico dell’ambiente. L’unico stressato, però, fu “Lupus in fabula” il quale, poveretto, dai singoli condòmini addetti giornalmente alla bisogna, si sentiva sempre ammonire allo stesso modo: “Cazzo, smettila di meconiare di qui e di là, che non sta bene. Maleducato!”

Beppe Cerutti

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