E’ alquanto imbarazzante, per un sindaco, rivolgersi alla stampa per attirare l’attenzione delle istituzioni pubbliche su problemi altrimenti ignorati. Soprattutto quando si toccano questioni molto delicate, attinenti alla sfera dei dati sensibili personali, rispetto ai quali il dovere di riservatezza non è una facoltà ma un obbligo, prima di tutto morale. Tuttavia, se un sindaco è investito da un onere che, a rigor di logica, non dovrebbe ricadere sul  suo Comune, ed al quale non riesce comunque a far fronte per oggettiva mancanza di risorse economiche, non può fare altro che protestare, nella speranza che qualcuno lo ascolti e non si limiti a fornire consolatorie pacche sulle spalle, ma proponga soluzioni concrete al problema posto. Ciò premesso, per spiegare meglio lo “stato dell’arte”, e lo stato d’animo di chi lo descrive, è quanto meno necessario richiamare un passaggio  precedente.

Circa un anno e mezzo fa ho condiviso con molti del cremasco una lettera di protesta concernente il pagamento delle rette dei minori e degli adulti inseriti nelle cosiddette “comunità protette”, su disposizione  del Tribunale per i minorenni di Brescia. Ovviamente l’oggetto della protesta non riguardava i provvedimenti in sé, rispetto ai quali i Comuni svolgono peraltro un ruolo attivo, propositivo e partecipativo, bensì l’impossibilità oggettiva, da parte dei Comuni stessi, di far fronte, con risorse proprie, ai costi ingenti che derivano dalle disposizioni dei giudici, assunte senza previa  verifica della situazione economica dell’ente al quale tali costi vengono addebitati. Costi imprevedibili che, in quanto tali, risultano  sprovvisti di adeguate coperture di bilancio e,  nonostante ciò, sono assoggettati, senza possibilità di deroga, alle restrittive norme contabili che impongono il pareggio di bilancio, ed escludono la possibilità d’impiego degli “avanzi di amministrazione”, qualora disponibili.

Nonostante il tempo trascorso, devo (dobbiamo!) purtroppo constatare che le proteste sollevate nella circostanza non hanno prodotto alcun esito positivo: tutti gli interlocutori ai quali ci eravamo rivolti avevano promesso un interessamento, ma nessuna iniziativa concreta è stata messa in campo o si è rivelata risolutiva, lasciando ancora una volta i Comuni, soprattutto quelli di piccole dimensioni, soli di fronte a problemi che non possono risolvere, ma soltanto subire. Nell’ultima settimana del 2016, ho peraltro scoperto, che l’impropria attribuzione ai Comuni di carichi di spesa che dovrebbero gravare su altri settori della spesa pubblica nazionale, non riguarda soltanto il tema del maltrattamento dei minori in ambito familiare, ma si estende anche ad un altro scottante problema, a tutti noto come “violenza di genere”.

Premetto che la materia è regolamentata (quantomeno in termini di enunciazione di principi) da leggi dello Stato (per ultimo il D.L. 93 del 14 agosto 2013, convertito in legge 119 ad ottobre dello stesso anno), integrate da leggi e delibere regionali. Per quanto riguarda la Lombardia, il testo di riferimento è la L.R. 3 luglio 2012 (Interventi di prevenzione, contrasto e sostegno a favore di donne vittime di violenza). C’è poi una delibera della Giunta regionale (del 19.12.2014) con la quale furono stanziati 2.722.815 euro, appunto destinati ad “assistere e sostenere le donne vittime di violenza ed i loro figli”, relativamente al periodo 2015/2016. C’è anche un “ordine del giorno” (Pd), approvato dal Consiglio regionale il 27 luglio 2016, che impegna la Giunta regionale a svincolare i 2.7 milioni di euro ricevuti dal governo per gli anni 2013/2014.

Nonostante ciò, come dicevo, in prossimità della fine del 2016 il Tribunale per i minorenni di Brescia ha disposto, attraverso decreto, di collocare presso una struttura protetta una signora, qui residente, che ha denunciato d’aver subito maltrattamenti continuativi dal marito, ed i suoi  figli minori. Preciso che la segnalazione del caso all’autorità giudiziaria è partita da un “centro antiviolenza” di Milano,  alla quale la  denunciante si era rivolta.

A stretto giro, ma con destinazione già eseguita, il Comune  è stato informato dell’accaduto ed invitato a predisporre le somme necessarie al pagamento delle rette di ricovero delle  persone inviate in struttura protetta, quantificate in 280 euro  giornaliere.

Alle prime rimostranze del Comune, concernenti l’indisponibilità delle somme necessarie e  la conseguente impossibilità di provvedere al pagamento delle rette, una funzionaria della Regione Lombardia  ha invitato il Comune stesso ad attingere ai fondi regionali, in parte disponibili, a suo dire, presso il Comune di Cremona, designato ente capofila del nostro ambito territoriale. La responsabile di settore del Comune di Cremona non ha però tardato a comunicare al Comune   che la disponibilità di fondi non superava i 15.000 € e che gli stessi non potevano essere impegnati per il solo caso in esame, ma spalmati sulle iniziative in corso a livello provinciale. Pare infatti vi sia un corto circuito istituzionale relativo al trasferimento dei fondi: le regioni lamentano il ritardo dei trasferimenti da parte del governo; il governo nega; i centri antiviolenza, che dovrebbero provvedere a finanziare le cosiddette “case rifugio” per le vittime di maltrattamenti ed i loro figli, lamentano l’insufficienza delle somme stanziate e l’estrema difficoltà di accesso alle stesse; alcune regioni (p.es: Emilia Romagna) anticipano i trasferimenti ai centri, altre, addirittura, non erogano i fondi ricevuti dallo Stato.

A torta finita, il conto delle rette delle strutture protette viene scaricato sui Comuni. Per il caso in esame, il Tribunale dei minorenni di Brescia  ha infatti decretato che il Comune di Agnadello  “provveda alla presa in carico dei minori, attraverso l’inserimento presso idonea struttura protetta disposta ad accogliere anche la madre, ivi trattenendoli nel caso quest’ultima decidesse di allontanarsi…”. In altre parole, il Comune è obbligato ad assumere un adeguato impegno di spesa, di quantificazione indefinita (la prossima udienza in tribunale è  fissata per metà aprile 2017), ma certamente al di fuori della “portata” del bilancio di riferimento. Poi si vedrà.

Allo stato attuale, ai servizi sociali del Comune di Agnadello (3900 abitanti) risultano affidati con decreto: sette minori e tre mamme, ospitati in strutture protette, oltre a due affidi famigliari, che hanno però costi decisamente inferiori a quelli delle rette delle strutture.

A fronte di una situazione di questo tipo, per un sindaco, la tentazione di “rimettere il mandato” è molto forte, anche se l’immediata conseguenza sarebbe la nomina di un commissario ad acta, pronto ad ottemperare alle disposizioni contestate dal dimissionario.

In alternativa, si può tentare ancora una volta di “risvegliare la politica”, sperando in un esito migliore di quello che  è stato riservato ai sindaci del cremasco nel recente passato. Per farlo è ovviamente necessaria la collaborazione  di tutti, anche perché quello rappresentato non è il problema di un solo Comune, ma li riguarda tutti, in quanto scardina i principi generali di autonomia finanziaria e di gestione contabile delle risorse disponibili sul territorio. Quello che succede ad Agnadello oggi, può capitare ad un Comune ancor più piccolo domani, paralizzandone l’attività amministrativa.

A “Comunità Sociale Cremasca”, azienda pubblica che si occupa, appunto, del sociale  e compartecipa alla copertura della spesa relativa ai minori,  è stato richiesto di convocare con urgenza una riunione dei sindaci  soci, al fine di concordare una adeguata strategia  di intervento. Nel frattempo il Comune di Agnadello “garantisce“ la copertura di spesa al caso in esame (ed a quelli precedenti), senza sapere fino a quando dovrà mantenere tale garanzia, e soprattutto come farà, senza risorse disponibili e con i vincoli di bilancio immutati, a mantenerla.

 Giovanni Calderara – sindaco di Aganadello

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