La mia generazione ha perso. Lo cantava uno che ha lasciato tanto nella storia del costume e della cultura italiana. La piazza stasera è calda, nel senso che il cemento restituisce tutto il calore accumulato durante la giornata assolata. Mi fanno male le gambe a stare in piedi fermo vicino ad un palco. Il cantante locale allieta la cena degli abitanti della Città Giocattolo con le sue canzoni, alternate a quelle di qualche autore imprescindibile e oramai da libro di scuola, come quello citato all’inizio. Il cantautore ha qualche anno più di me. La sua generazione non mi frega un cazzo di come l’abbia sfangata la vita. La mia ha perso.
Una volta ad un concerto sarei stato sotto il palco a saltare o sopra. Mi guardo in giro, sono nei pressi dell’ambulanza di servizio. Dietro di me volti stanchi di molti della mia generazione. C’è gente che ci ha provato. Che con una chitarra al collo ha provato più volte a portare a casa un messaggio. A portarlo a qualcuno. Adesso sono li col volto stanco e i figli che scalpitano per andare a casa a giocare con i videogiochi.
La piazza è calda e la mia generazione ha perso. Quanti cazzo di cantanti, scrittori, chitarristi maledetti che un tempo si atteggiavano a maledetto della Città Giocattolo. Si, lo vedo. Non so come si chiama. Ha la stessa pettinatura che era molto di moda… si, nel 1985. Adesso ha i capelli bianchi e parla col paramedico. Magari venti anni fa sarebbe stato sul palco.
E poi non è vero. Sul palco della festa di piazza 20 anni fa ci sarebbe stato il dannato liscio che ci ha cacciati a suonare nelle cascine, nelle festine, nelle cantine per 25 anni. Storie epiche che sono state raccontate dalle notizie in breve del quotidiano locale, da qualche casetta autoprodotta nello studiolo in cantina, da qualche foto sbiadita che adesso si passa allo scanner e si mette su Facebook come trofeo per mostre che, e che cazzo, la mia generazione ha perso.
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