Che poi è proprio quando ti senti brava, attenta, perfettamente al passo con i tempi che ti accorgi che essere mamma web 2.0 è una partita persa in partenza.
Parlo con i miei figli di social, spiego loro i rischi in maniera aperta, diretta, perchè diciamocelo, aver paura ad essere espliciti nella generazione di “You porn” è come inzuppare i Pandistelle nella tisana dimagrante.
Ho vietato loro solo di iscriversi al social Ask, con sede in qualche Paese dell’Est molto sordo a qualunque deontologia, famoso per contare il maggior numero di iscritti adoloscenti suicidatisi per cyberbullismo.
Per il resto i divieti preventivi a scopo educativo non mi appartengono: mio figlio vede i Griffin e i Simpson da anni ( ne ha dodici), mia figlia ( anni sedici) ha smesso di vedere “16 anni incinta” da quando sottotitolavo ogni puntata con una serie di “avvertenze per l’uso” sul tema sessuale.
Insomma come moglie qualche difettuccio posso pure ammettere d’averlo, come donna di casa pure, ma come mamma mi son sempre sentita inappuntabile.
Fino a ieri.
Dopo lunghe discussioni sull’opportunità di fare entrare in famiglia anche la nuova Playstation, sono andata ad acquistarla sola, in uno di quei negozi dove i commessi sono giovani nerd e tu per quanto ti sforzi, vieni vista come un’intrusa, una vecchia intrusa.
Sfodero la lista di tutto ció che mio figlio aveva decretato necessario per un primo adeguato funzionamento e sul bancone planano in sequenza: tessera fedeltà, console, secondo controller, auricolare bluetooth, scheda acquisizione video, cavo HD, primo gioco richiesto con relative espansioni e… al secondo gioco richiesto, avendo ormai capito che tutto quel materiale al massimo io l’avrei spolverato bisettimanalmente, il giovanotto nerd mi domanda: “Signora, ma quanti anni ha suo figlio? Perchè questo è un gioco che mostra sesso e violenza in modo esplicito“.
Panico.
In un attimo la mamma perfetta 2.0 capisce di aver cozzato contro un iceberg peggio che il Titanic, ma, tenace, non voglio affondare in pubblico, o meglio davanti a un pubblico che era ancora sconosciuto all’anagrafe, mentre io leggevo su “Cioé” cos’era il petting.
“Lo so. Il gioco infatti è per mio marito“.
Salvata l’apparenza di genitore uno (riferimento di ambito kiengiano) mi appresto a liquidare il dovuto, ma mi restano ancora da apporre tre firme sul modulo di adesione della tessera fedeltà e mentre diligentemente eseguo, vedo altri spazi vuoti sul foglio e domando: “Devo compilare anche questi?”
Con un sorriso beffardo, molto simile a quello che aveva sfoderato trent’anni fa la mia migliore amica mentre mi annunciava di avermi fregato il fidanzato, il nerd lattante mi spiega: “Quello spazio è solo per minorenni, non mi pare PROPRIO il suo caso”.
Finalmente pago. Esco con quel “PROPRIO” che scaverà nell’orgoglio fino a quando finiranno la Salerno-Reggio Calabria.
Arrivo a casa e spiego a mio figlio che il secondo gioco era esaurito (70 euro, lo rivendo a 35 se vi interessa) e con noncuranza gli dico: “Il commesso mi ha detto che quello è un gioco con sesso e violenza molto espliciti, lo sapevi?”
E lui, piccolo angelo innocente, che mi ostino a chiamare “amore mio”, mi risponde: “Infatti ti avevo chiesto se sapevi di cosa parlavano quei giochi e tu mi avevi detto no”
Taccio, nulla puó amplificare la cocente sconfitta e mentre la prole si prodiga a collegare una serie di accessori che pensavo usassero solo sulle navette aerospaziali, io celebro un sommesso funerale, quello della mamma perfetta 2.0, incidendo rassegnata sull’epitaffio:
“Nessuno pensi di sfuggire alla propria generazione e più facile uscire con Caronte ‘a rivedere stelle’“.
Poi chiamo mia madre, ho bisogno di dirle che “quando ero giovane io, era più facile fare il genitore“. Già, di una figlia la cui massima trasgressione era di leggere di nascosto “Il Diario di Laura Palmer“, ma questa è una vecchia storia.
Barbara Locatelli