C’era un uomo che schiacciava noci sul balcone di fronte al nostro. Era seduto, usava la ganascia di ferro lucidato e aveva i capelli opachi come l’acqua che si mischia con l’anice. Crach, così lo chiamavano quegli ultimi ch’erano vissuti al Nosedo, perché aveva denti bianchi e forti, che tutti i giorni masticavano la vita dentro una bocca larga e mai sazia di sapori.

Quand’ero bambino i grandi dicevano che la morte e il guscio spezzato delle noci facessero lo stesso secco rumore, però ogni volta cambiavano gli ascoltatori. Aguzzavo l’udito. Per me Crach continuava a essere uno scricchiolio, e pensavo a quel rumore che si ripeteva come ai grani della corona del rosario, sempre gli stessi, monotoni e incapaci di trasmettere fervore, che scivolavano tra le dita e sembrava che non dovessero finire mai.

Il giorno del funerale i miei genitori mi vestirono come alla domenica perché bisognava andare in chiesa, ma non mi portarono al cimitero: ritenevano che ero ancora troppo piccolo per assistere al seppellimento. Scappai al mio custode e di nascosto vidi quando stavano calando la bara. Ancora non lo sapevo ma fu in quel momento che sentii il mio primo Crach, il primo per cercare di tenere lontana la morte.

Beppe Cerutti

 

La foto è stata presa dalla pagina facebook Milano sparita e da ricordare

 

 

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