E’ un suono metallico da officina quello che apre i 5 minuti di Korgüll, The Exterminator, il brano che apre Rrröööaaarrr, il secondo disco dei canadesi Voivod, che esce in tutto il mondo il 14 marzo del 1986, un venerdì sera come un altro nella storia della città giocattolo.
Nel pub che frequentavamo la voce che avevamo formato una band si era diffusa e in molti cominciavano a chiederci quando avremmo esordito, quando avrebbero potuto sentire questa new sensation. Noi si abbozzava: “stiamo preparando un repertorio, presto inizieremo a pensarci”.
La schiera di metallari della città giocattolo si ingrossava sempre di più. Ogni mese le colonne di HM portavano incise a fuoco le recensioni di almeno tre o quattro dischi che sarebbero entrati nella storia del genere. Tutto andava così veloce che i nostri amici si aspettavano che anche noi da un momento all’altro saremmo saliti su un palco e avremmo spaccato tutto tra riff potenti come quelli del thrash della Bay Area, che stava arrivando come una mazzata anche in Italia e oscure melodie da Nwobhm.
Il metal nel mondo della musica cominciava a farsi scorgere come il mostro che c’è sulla copertina di Rrröööaaarrr. Il simpatico mostriciattolo si chiama Voivod ed è un incrocio tra horror e fantascienza, apparirà spesso sulle copertine dei canadesi. La mascotte è un classico nel mondo del metal. La band che noi cercavamo di tributare, gli Iron Maiden, ha creato la mascotte più celebre di tutti i tempi: Eddie. Tutti lo avete visto almeno una volta adocchiarvi dalle copertine di tutti i dischi della vergine di ferro. Ma sono decine i gruppi nell’ambito che hanno una mascotte.
Il Not man degli Anthrax, Martha Splatterhead degli Accused, Vic Rattlehead dei Megadeth, l’Aggressore dei Kreator, Sergeant D dei Sod e poi appunto il Voivod che dalla copertina di Rrröööaaarrr arriva come una spaventosa macchina di guerra e massacra tutto e tutti nell’universo orrorifico e sci-fi dei canadesi.
Anche nella città giocattolo qualcuno era caduto nella trappola della mascotte gli Anestesia avevano dipinto sui propri chiodo un Paperino, si quello dello zio Walt, che vomitava. Inguardabile. Eppure ci si ricorda di loro ancora per quello e non per la musica che facevano, appunto ma che musica facevano? Noi alla mascotte non ci avevamo mai pensato. Non potevamo perdere ulteriore tempo. Già messi come eravamo era più il tempo che si passava tra lavoro e bar che in sala prove.
Di mio ad un minimo di idea grafica per la band ci avevo pensato. Avevo pensato bene di scippare la mascotte ad una band delle valli di cui mi era giunta la cassetta e che, ne ero convinto, non avrebbe mai avuto un cazzo di successo. Avevo incollato sopra al loro nome, Drunkards mi pare, il nostro e avevo schiaffato sulla cassetta alcune canzoni monche registrate in presa diretta in sala prove. Lo spacciavo per il nostro primo demo. In realtà era un accozzaglia di attacchi sbagliati e canzoni stroncate dei pochi pezzi degli Iron Maiden che cercavamo di fare. I già citati Aces hight e Running free e poi la canzone che dava il nome al gruppo, si provava a fare anche The Trooper ma io non riuscivo davvero a cantare le parti iniziali dove c’è solo la voce tra una mitragliata e l’altra di musica. Il problema era che così la voce si sentiva, e si sentiva che non ero davvero una Air raid. Normalmente la mia voce non si sentiva quasi mai, se non nella mia testa. Non avevamo un impianto voci per cui attaccavo il microfono al secondo canale dell’ampli di Mauro e del suo basso, stava migliorando il ragazzo, e urlavo come un ossesso. Ma si sentiva giusto qualche brusio distorto, d’altro canto la voce passava attraverso la testata Marshall del basso, e veniva trattata come un basso…
Quando registravamo qualcosa non usavo il microfono. Urlavo nel microfonino del registratore. Così la voce, quando si sentiva la cassetta, un po’ arrivava. Peccato che mentre cantavo non sentivo cosa cantavo davvero, per cui era una cosa obbrobriosa. Quello che ne usciva era un flusso sonoro composto da una coppia di chitarristi decenti, uno davvero bravo l’altro medio, un bassista con un po’ di idee ma all’alba della sua carriera, un batterista che teneva si il ritmo ma non lo variava mai di una virgola e una voce inesistente.
Presto sarebbe stata primavera e la saletta prove in via Brescia sarebbe stata presa d’assalto dagli amici curiosi di sentirci, e il bluff si sarebbe svelato. Si sarebbero accorti che eravamo una manica di cazzoni senza arte ne parte che cercava di darsi un tono ma che non sapeva minimamente suonare. Ma la fortuna ci avrebbe dato ancora qualche mese per stabilizzarci perché lo stabile di via Brescia presto sarebbe stato sgomberato dalla polizia, che si scoprirà poi, aveva in realtà preso una grossa cantonata.
Ma per questo avvenimento avrebbe dovuto passare ancora un mese abbondante. Nel mezzo ci sarebbero state alcune altre prove, un paio. In una di queste si sarebbe presentati Dimitri e Paolo, due che in un modo o nell’altro avrebbero influito sulla vita dei Medalllo. Paolo era molto più piccolo di noi. Aveva 14 anni e sognava di suonare la batteria. Appena ne aveva l’occasione si metteva dietro le pelli lasciate sguarnite da Fabrizio, che iniziava a pensare più alle donne che alla musica, e ci dava dentro. Presto si sarebbe capito che il suo senso del ritmo e la sua voglia erano molto più grandi di quelle di Fabrizio. Paolo a distanza di quasi 30 anni è l’unico di noi che ancora suona con continuità, la batteria e le percussioni nella banda civica della città giocattolo. Allora amava i Manowar e l’epic metal.
Dimitri invece voleva cantare. A me ovviamente stava sulle balle, anche perché al contrario di me era figo, si muoveva bene e aveva voce. Però odiava gli Iron e questo mi faceva gioco. Gli cedevo il microfono solo quando si improvvisava l’unica canzone entrata in repertorio che non era degli inglesi: Seek and destroy dei Metallica. Cazzo, riusciva a farsi sentire anche cantando attraverso l’amplificatore del basso che a me faceva sembrare una scoreggia. Lui davvero sembrava il Rrröööaaarrr di Korgüll, The Exterminator.
Per fortuna mia a Stefano e Massimo non stava eccessivamente simpatico. Arrogante e prima donna. Troppo per loro che in un modo o nell’altro puntavano ad essere i frontman del gruppo. Io non davo certo fastidio. Magro, pallido, quasi immobile. Tutt al più facevo tenerezza e non rompevo le balle con richieste strane.
Con Stefano poi si proseguiva ad improvvisare cosine che riuscivo a cantare di più, dopo il pezzo degli U2 avevamo iniziato a fare anche qualcosa dei Cult, ma solo quando Mauro, Massimo e Fabrizio erano distratti. Loro erano puristi metallici, io cominciavo a scoprire che mi piaceva anche altro. Presto sarei caduto tra le braccia dei Cure e della new wave inglese. Ma ci sarebbero voluti ancora un paio d’anni perché A Forest diventasse la mia canzone preferita, e almeno una decina perchè provassi a cantarla col Bettynel. In mezzo avrebbe dovuto passare ancora tanto metallo fuso.

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