Ad un passo dalle ferie estive cominciavano tutti a pensare più che altro al mare che alla musica. La primavera del metal della città giocattolo era stata esaltante ma era finita. Ci aspettava un agosto di città deserta e poi un ritorno alle attività lavorative con la Festa dell’Unità di settembre, con i soliti Dobro ed il loro country a farla da padroni dello spazio giovani, ma se c’avevano sessant’anni… A questo si aggiunse che venerdì 25 luglio, ultimo giorno di lavoro prima delle ferie estive, Mauro si ruppe un polso. Diagnosi: un mese di gesso e uno di riabilitazione. Risultato i Medalllo sarebbero tornati a suonare in sala prove a fine settembre e l’esordio su un palco era rimandato almeno fino a novembre.
Un’ordinaria rabbia mi prese quella calda domenica pomeriggio in cui mi scontrai con la realtà. Rage of order era anche il titolo del disco che i Queensrÿche facevano uscire in quel giorno. La furia priestiena degli esordi era dimenticata e il tecnicismo esaltante di Operation Mindcrime da venire. L’ingresso massiccio dell’elettronica nella loro musica era il primo segnale di quello che sarebbe successo di lì a dieci anni. Pionieri e futuristici, troppo futuristici. La voce di Geoff Tate rimaneva però irraggiungibile. Questo mi deprimeva ulteriormente.
La situazione era questa. Mauro con un polso rotto in par10tenza per 15 giorni di mare e riabilitazione, Fabrizio e Melissa erano già andati via, non sapevamo quando sarebbero tornati, Massimo sarebbe volato negli States per il primo dei viaggi che lo ha portato dove si trova oggi: a lavorare a New York. Per finire Stefano che avrebbe accompagnato il gruppo del fratello maggiore in tre concerti nel Nord Italia, una specie di roadie. Rimanevo io che non sarei andato da nessuna parte. Anche Paolo era al mare. Avevo davanti un’estate vuota e di attesa. Attesa che le ossa di Mauro si saldassero, che si saldasse anche la voglia di andare avanti con i Medalllo. Passai la domenica sprangato in casa a sudare e a lucidare i miei dischi in vinile. Ne possedevo già un centinaio. Mi ero fatto prestare, dall’ennesimo Paolo di questa storia, tutta la discografia dei Deep Purple, i primi quattro dei Led Zeppelin e qualcosa dei Pink Floyd, che ancora però non apprezzavo. Quei dischi sono ancora parte della mia collezione.

Usucapione secca.

Non li restituirò neppure sotto tortura. Il vinile Atlantic a 180 grammi, quello con l’etichetta rossa e nera, di Led Zeppelin III, quello con la rotellina che cambia le immagini in copertina, lo mostro fiero ad ogni discussione su quanto fosse bello e feticistico il possesso di vinili. Avere in un botto tutta la discografia di uno dei gruppi della triade storica, Deep Purple – Led Zeppelin – Black Sabbath, era stato un colpaccio. Il primo tassello della mia fama di grande conoscitore di musica, metal in primis, fama che qualcuno oggi inizia a dire usurpata… ah, i giovani!
Ho sempre avuto la fortuna di avere ottimi maestri. Tra un paio di anni conoscerò Gigi, che mi porterà sulle strade del resto del rock settantiano. Grazie a lui scoprirò Grand Funk Railroad, Gong, Cream… Ma questa è un’altra storia. Scippare vinili altrui in quel periodo era consuetudine. Dynasty dei Kiss, quello del ’77, quello della terribile I was made for loving you, da discoteca, viene dalla collezione della cugina bonjoviana, altri Pink Floyd li accaparrai tramite un amico che li dismise per convertirli in vinili nuovi, Aqualong degli Jetro Tull fu al centro di un caso diplomatico con un collega che mi aveva prestato un blocco di vinili e quello…. casualmente…. non tornò. Certo alle volte fui anche io vittima di questa sciagurata abitudine. Il vinile di Come out and play dei Twisted Sister lo prestai senza mai rivederlo proprio a Fabrizio. Lo ricomprai anni dopo nella versione col tombino che si apre e mostra il terribile volto di Dee Snider. Era fantastico però rientrare in casa con un vinile nuovo, incelloffanato. Ti sedevi a terra in camera, accendevi il giradischi, scartavi con circospezione il disco, lo guardavi in controluce e lo puliti con panno antistatico. Poi frusssshhh. La puntina nel primo solco.

Mentre le note musicali ti trapanavano tu leggevi da capo a coda le note di copertina, vera cava di informazioni. Non c’era la rete che click ti diceva tutto. Ne sentivi la consistenza, l’odore. Poi decidevi che posizione avrebbe occupato nella fila dei dischi sotto lo stereo. Io li avevo ordinati, come ancora oggi, dai più soft ai più duri. Per cui: aor, glam, hard-rock, Nwobhm, power, speed, thrash. Unica eccezione gli Iron Maiden, che stavano e stanno in testa a tutto. Per loro ho speso fior di dindini. Soprattutto per i bootleeg in vinile. Ma il pezzo da museo è una delle 800 copie delle Soundhouse tapes, il 45 giri autoprodotto nel 1978. Appeso alla parete assieme ai 45 giri di Root bloody root dei Sepultura, in vinile rosso e Make me laught degli Antharax, con copertina sagomata a bocca.
Sempre adorato il feticismo da collezionista musicale. Ho acquistato cose che non ho mai sentito davvero, tipo il doppio vinile picture disc della raccolta dal 1980 al 1987 degli Iron Maiden. Tanto i pezzi li so a memoria. In quegli anni addirittura a gennaio facevo rilegare le annate di HM e Metal Shock spendendo un botto da un rilegatore che lavorava in garage. I 4 volumi del 1986 ancora torreggiano nella mia libreria. Un cimelio che ancora oggi sfoglio leggendo una vecchia recensione qua e una là, come sorseggiare un goccio di whisky invecchiato 25 anni.

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