Per dirla proprio tutta e senza ipocrisie, era un ometto insignificante e con quel tanto che bastava per poterlo definire di aspetto assai ripugnante. Non perché fosse un mostro: semplicemente perché era un pirla. Tra gli innumerevoli difetti annoverava anche la presunzione dell’avvocato in vena di citazioni latine; nel suo caso, però, derivata non tanto dal classicismo del Diritto romano, di cui ignorava l’esistenza, quanto piuttosto da una becera ignoranza capace di frantumare il granito: riteneva che i suoi sessanta e rotti anni fossero più che sufficienti per atteggiarsi a saccente sulle cose della vita, quelle comprese entro la cinta comunale, ché per il resto non aveva tempo da perdere.

Portamonete ben asserragliato (il misurino della Moka Express doveva essere pieno e ben pressato, ma il caffè lungo, “e non la solita acquetta”, da durare almeno mezz’ora e con due bustine di zucchero), con la sua sola presenza a girotondo, molto simile all’umidità del giorno dei morti, riusciva a innervosire l’oste e soprattutto la di lui consorte, dai trascorsi un po’ torbidi ma in sintonia con il nome da fattucchiera disneyana. Per non parlare degli accademici dello scopone scientifico che, inevitabilmente, finivano per commettere errori tali da giustificare esplosioni verbali da far inorridire l’ala moderata del circolone Arci: “Ma porca di quella puttana di tua… Se ti busso a Picche, che cazzo mi rispondi a fare con un Coppe, che sai che non né ho! Ma vai a cagare! Ma vai però, somaro!”

Annuiva con il capo e nei presenti s’affollavano dubbi: sarà d’accordo sulla denuncia dell’errore commesso nella fase di gioco, oppure sulla professione delle varie madri mogli sorelle e figlie tirate in ballo? Considerazione, quest’ultima, che, con il tempo, s’insinuò come un tarlo nella mente di molti avventori.

Le donne, per esempio. Pontificava: “Quelle lì lasciale fare da loro, ché non ci si può fidare.” Le uniche che aveva conosciuto in tempi lontani le aveva pagate, ma poiché le tariffe gli erano sembrate sempre e comunque troppo alte, ebbe a rimostrare sdegnato, sempre con la mano ben grifagna alla scarsella. Tra le addette ai lavori circolò la voce e le scuse buone per dargli la lunga diventarono un muro: “Pretese tante, da tipico sfogliatore contrabbandiere di giornaletti sconci, ma quando si trattava di dindini, braccino corto, ma corto che neanche un monco!” disse Amelia, che prima di ravvedersi in ostessa praticava sulla Rivoltana.

Quando venne che gli si approssimava la pensione, ci fu anche un tizia di cotenna dura e di ancora bella presenza che lo prese in considerazione, più che altro nella prospettiva di una abbastanza rapida condizione di vedovanza. Toppa falsa, perché ben presto si rese conto che, nonostante la pressione alta, a quello lì neanche la cattiveria poteva farlo morire e allora ripiegò su un ex cariolante con accertati disturbi cardiaci.

Fin qui il tipo. Adesso ti racconto come andò a finire.

Com’è risaputo, i temporali ripuliscono l’aria e lavano le strade, ma sempre troppo poco.

All’Amelia, che era stata sì puttana, ma che da ravveduta era diventata ostessa dal tocco magico in fatto di cucina, in quella sera di lampi e di tuoni che non facevano paura a nessuno, ci venne un’idea per far sorridere quei quattro sempre in canaglia con le carte: “Se la fate fuori alla svelta con le briscole e le bestemmie, vi preparo una bella spaghettata condita con vento e nuvole nere incinte di grandine.” Era sera finita ma non tanto tarda e ad assentire, figuriamoci! c’era anche il girandolone, che di suo tenne a sottolineare che preferiva una salamella e mi raccomando ben cotta. “Per te una nuvola speciale”, assicurò la cuoca rivolgendogli uno sguardo torvo, meglio, assassino.

Ora, anche il più imbecille degli imbecilli sa che per preparare quattro spaghi corsari non occorre il coltello, meno che mai quello da macellaio; ma sì, invece, per trattare alla vecchia maniera un innocente insaccato di maiale destinato alle braci ardenti.

“Abracadabra ciccìcoccò” e l’impasto, affatturato con spezie provenienti da Una Notte Sul Monte Calvo, gli si piazzò sullo stomaco con lo stesso peso specifico di una vita spesa male.

Nonostante la breve durata dell’agonia, trovò il tempo per criticare l’eccessiva presenza di aglio e la scarsa attenzione prestata dalla cuciniera durante la fase di cottura. Amen.

Beppe Cerutti

 

* Il dipinto che accompagna il racconto è opera del pittore Giancarlo Vitali. 
Fa parte di una mostra (“Gli stralunati” ovvero “Le mani sulla luna”) 
in corso fino al 29 settembre presso il Palazzo del Broletto di Como, piazza Duomo.

 

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