Essere ammoniti da una macchina per scrivere, bisbetica per sua intrinseca costituzione, favorisce monumentali rotture di coglioni. Povera, non lo sa, ma crea disagio: “Com’è che il rullo non è ancora avvolto da un foglio bianco?! Se tu pensi di essere uno scrittore, io che cazzo ci sto a qui a fare? A contarmi i tasti?! Datti da fare, lazzarone!”
“Ma vai a ranare, stronza. Ho bisogno di un caffè.”
“E già! Alla sera leone e al mattino coglione. Tsee!”
“Se non la pianti ti sostituisco con un personal computer.”
La minaccia fa sempre effetto e Lettera 22 s’ammutolisce titubante. Forse sveglio, mi appropinquo allo strumento di scrittura, che è affiancato da una risma di carta formato A4. A volte mi dimentico della seconda parte della ramanzina: “Era ora, è da tre giorni che t’aspetto e, per piacere, prima d’iniziare fammi giù la polvere.” E il bastardo foglio bianco, ben sapendo che finirà appallottolato, matura imperterrito la sua ghignante vendetta: “E adesso che cazzo scrivi?” Ignoro il sarcasmo e proseguo. Quando si avvolge un foglio al rullo gommato il meccanismo rotante della macchina fa “cricricricri”. Il mio no. Intona la canzoncina dei sette nani: “Andiam, andiam, andiam a lavorar”, con una beffarda risata finale. Le due cose messe insieme, ne sono certo, avrebbero demolito anche la caparbietà dell’Alfieri.
Scrivo alla maniera ottocentesca, perché so che ai miei succitati collaboratori piace: “In quel tempo in cui il profumo dei tigli risvegliava canagliate inconfessabili, le chiacchiere e le risatine fatue delle piccole donne salivano al mio balcone simili a un cicaleccio argentino. Mi pareva un segnale di buon auspicio e guardavo al basso celato da una tenda trasparente impuntata di quegli schiribizzi che tanto piacevano a mia madre. Arrossivo anche dietro le cortine, mentre avrei voluto essere là, con loro e sorriso spavaldo. L’ingenuità del mio troppo nascondermi procurò il mal caso: fui scoperto, severamente redarguito e al finale anche sonoramente schiaffeggiato con l’infamante accusa di manifesta morbosità.”
A quel punto Lettera 22 si rifiutò di proseguire e proruppe in una risata oceanica: “Oei, A4, per me quello lì si è fatto una sega sul balcone.” “Zitta cretina, altrimenti non sapremo mai come va a finire”, rispose la carta che, assai turbata dalla piega degli avvenimenti, da cellulosa cercava di trasformarsi in papiro. Il nastro inchiostrato, dal canto suo, stava impallidendo nella striscia nera; quella rossa, invece no: ormai ne aveva viste tante.
Adesso posso dire di essere soddisfatto. Ho domato la macchina, la carta e i miei sensi di colpa.
“E quello là sul balcone?”
“È diventato un grande scrittore.”
Beppe Cerutti