C’era una volta un signore che aveva una ben avviata attività commerciale: faceva il lattaio ed era il mio papà. La bottega si trovava a Torino, in via Luserna al numero 34. Guardando dalla vetrina, proprio davanti, vedevo la chiesa e il muro dell’oratorio che si allungava verso sinistra. Dall’altra parte c’era la scuola elementare dove, diceva la mia mamma, “quando avrai cinque anni imparerai a leggere, a scrivere e a conoscere tante altre cose. E magari a diventare anche un bambino ben educato.” A me, per via di un oggetto misterioso che si chiamava “data di nascita”, mi toccava ancora di “fare” l’asilo ma di cose ne avevo già imparate tante, per esempio le parolacce e a dire le bugie. Soprattutto a scocciare i miei genitori e i clienti. Devo però ammettere che qualche limite c’era e piuttosto imbarazzante: non sapevo pulirmi il sedere da solo.

Ora, provate a immaginarvi la scena. Vi trovate dentro una latteria della periferia torinese alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Le pareti sono rivestite di piastrelle azzurre fino ad altezza d’uomo, poi imbiancate. Una superficie in marmo granulato e un fronte uguale ai muri formano il banco vendita, dietro il quale si innalza un immenso scaffale da biblioteca luccicante di vasi vetro, ognuno dei quali contiene un intollerabile peccato di gola. Vi sono alcuni tavolini col piano d’appoggio in marmo colore bianco stanco e robusto sostegno in ferro battuto. Il tutto illuminato da tubi fluorescenti appesi al soffitto. Una luce che faceva apparire tutti un po’ più pallidi che al naturale.

Sono circa le sei del mattino e i miei genitori si apprestano a servire i primi clienti. C’è chi chiede un caffèllatte prima di entrare in fabbrica, intingendovi il pane raffermo del giorno prima portato da casa, e chi compra un litro di latte per preparare la colazione ai figli: “Bon dì monsù e cerea madamin.”

Come in tutte le cose, anche in questo caso ci fu una prima volta. All’improvviso dal retro giunse una voce infantile ma già imperiosa: “Mamma… Mamma… ho finito… vieni!” “Signora mi scusi ma devo andare a pulire il culetto di mio figlio…” “Ma si figuri… Sapesse quante volte l’ho fatto al mio… anche sotto i bombardamenti…”  Quello che non mi piaceva è che mi “puciasse” il sedere dentro una bacinella di acqua calda, però alla fine imparai, perché più che calda a me risultava bollente.

Ora bisogna domandarsi perché la cacca la facessi alle sei del mattino.

Checché ne pensasse mia madre, la sapevo già lunga,

perché poi bisognava aprire il negozio. E io, dopo le necessità fisiologiche, ero lì, a dirigere le operazioni: “Alla madamin Italia (giuro, si chiamava così) caffellatte con mezza biovetta”… “Al signor Rebaudengo latte caldo nel bicchiere con un savoiardo e un wafers…” C’è poco da ridere, anche se era uno solo, io wafer lo dicevo con la esse finale.

Ma intanto non perdevo mai di vista la macchina parlante. Non capivo perché gli adulti (il mio papà o la mia mamma) quando conversavano con quel mostro nero sistemato là in alto, poi dicevano sempre: “Se ha bisogno chiami pure il 383816.” Come nome di battesimo mi suonava un poco strano, ma considerato che per parlarci mi ci voleva la sedia alla fine me ne feci una ragione. Come squillava, non c’erano ne santi né madonne che potessero trattenermi: “Pronta ciao, come stai 383816?”

“Ciao cit, sto bene grazie, mi fai parlare con il tuo papà?”

Ora, per farla breve, provate a immedesimarvi nella tragedia. Mia madre, che tra un cliente e l’altro, s’era fatta un culo tanto per pettinarmi con la “banana”, (all’asilo andava di moda)  ora vedeva la sua amorevole costruzione da parrucchiera acqua e zucchero andare in vacca; i clienti terrorizzati per l’irrompere di un ciclone nano assatanato; e la delusione del suddetto che, in piedi sulla sedia, teneva faticosamente tra le mani una nera cornetta: “Papà, è per te.”

“Chi è?”

Con il senno di poi devo ammettere che mio padre di psicologia infantile non ha mai capito un cazzo. Dico, è una domanda da farsi a un bambino alto come due litri di latte?

“Come chi è? Il 383816, la macchina parlante.”

 Beppe Cerutti

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