Cercherò di narrare alla maniera del decadentismo barocco, con un viatico di letture fugaci, iniziando con un “oh oh oh” stupefatto. Venezia, luogo magico attraversato da milioni di persone, ognuna con la segreta speranza di ritrovare la propria innocenza, o magari solo un sogno arabescato. Al Ponte degli Scalzi, lì appresso alla stazione dei treni, andavano e venivano i sognatori delle agenzie turistiche. Gli uni e gli altri incanalati, ognuno con la propria valigia montata su piccole rotelle rumorose, chi verso l’addio alla città, nella speranza che fosse solo un arrivederci, e chi incontro a rapimenti da raccontare in seguito tramite alcune migliaia di diapositive.

Pochi i privilegiati, quelli consapevoli di entrare in una terra invasa da gnomi salterellanti ansiosi di non capire un cazzo di fronte a un dipinto secolare, ma testardi nel voler credere alle favole. Anche a quelle cupe.

Il Ponte dell’Accademia non appartiene alla storia magistrale della Serenissima, ma è l’unico con i gradoni aperti, come se fosse una enorme scala a pioli, solo molto più inclinata ma che ti permette di intravvedere l’acqua sporca che scorre sotto e anche, per brevi attimi, l’incedere o lo svolazzare degli abiti di chi si appresta a salire dall’altra parte. Roba fatta dagli austriaci, canaglia beffarda che antepose la praticità dei traffici pedestri all’estetica orientaleggiante e misteriosa.

Ormai era il crepuscolo, annunciato dai tenui colori cangianti del primo autunno, e arrivavo dalla Galleria dell’Accademia in Campo Carità: andare per quel ponte m’avrebbe evitato estenuanti labirinti fino alla lontana Ruga Vegia, la mia meta.

Ora è bene precisare che a me dell’Accademia non è che me ne fregasse più tanto, ma lì nei dintorni si teneva, di volta in volta, qualche interessante simposio per esaminare le qualità del Refosco dal peduncolo rosso, vino nobile nonché traditore, qualora venisse abbinato al baccalà con la polenta. Il taverniere, lagunare tignoso, pretendeva un toco da cento in anticipo, ma solo per le “bevande escluse”. Il resto l’offriva lui.

Come stavo dicendo, “crepuscolava” in cielo come in terra, la qual ultima, però e chissà perché, in quel frangente, ebbe la pessima idea di adeguarsi al lieve sciabordio dei flutti, con ciò ponendo precarietà al mio equilibrio. Giunto che fui, finalmente, ai piedi del Ponte dell’Accademia dovetti prendere respiro ed equilibrio e mi misi a sedere sui gradoni d’accesso, quelli laterali, forse era il quinto magari il sesto, non ricordo. Ricordo invece di averla vista salire dalla parte opposta, da campo San Vidal. Non che la vidi tutta. Solo lo strascinare della lunga vesta nera che incurante ramazzava polvere e qualche mozzicone di sigaretta. In viso mi giunse il disgustato insulto d’un passante veneziano (‘mbriagon!”) unito a una incerta brezza musicale vivaldiana, forse l’Estro armonico. Mi misi in piedi e un gradone dopo l’altro cominciai a vederne le sembianze, che salivano con grazia dalla parte opposta. Al centro dell’asburgico valicatoio vi è una specie di breve piattaforma e lì mi fermai, vaneggiando che Venezia è un abito difficile da vestire. Se non porta con se la falce, la Morte è affascinante e quella distinta signora ebbe la vaghezza di un sorriso, perché non è vero che il nostro immaginario sia sempre costretto entro cigolanti e lugubri scheletricità. Al contrario mi parve di vedere un viso mesto come quello di una madre antica, addolorata d’essere l’assassina dei propri figli. Lei, in quel suo lungo mantello oscuro, passò oltre senza profferir parola e lentamente discese i gradoni per dissolversi tra le piccole calle che risucchiano il formicaio umano di Campo San Vidal.

Mi pare di ricordare che, in ospedale, mi ficcarono in bocca un tubo aspiratore e poi mi dissero: “La smetta di bere. Il ponte trasparente che ha descritto nei suoi deliri non esiste.”

Suggerimento non ricevuto. Con la mente sono sempre seduto ai piedi del Ponte dell’Accademia.

Beppe Cerutti

 

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