Sono passati ormai quattro anni da quando ho iniziato a lavorare in questo palazzo, sede storica della Wills Royal, la più grande compagnia finanziaria di tutta Londra. Trascorro così tante ore al giorno tra i contabili e i pacchi di documenti, che in alcuni momenti penso di essere diventato un impiegato anche io… In realtà sono psicologo: mi occupo della mente delle persone, dei loro pensieri, delle loro idee, non dei loro soldi o dei loro dati anagrafici.
Essendo il medico aziendale, tutti i miei pazienti lavorano qui. È come se vivessimo in una dimensione separata dal resto del mondo, dove il tempo scorre più velocemente, dove la frenesia è in ogni azione di ciascuno di noi, dove il denaro e il lavoro sono tutto. Qui, in questo grattacielo scintillante di vetro e acciaio. Anche in un universo bizzarro come questo, però, tutti i lavoratori, dal dirigente all’ultimo arrivato, sono persone.
Donne e uomini con le proprie ambizioni, preoccupazioni, idee, problemi… I loro sogni.
Tutti, anche qui, sognano. E in quattro anni ho raccolto così tante storie, straordinarie nella loro quotidiana semplicità, che non mi basterebbe un libro intero per raccontarle tutte. Posso solo provare ad accennare quelle che ricordo. Una delle più fantasiose e che, nonostante siano passati ormai alcuni anni da quando mi è stata raccontata, non posso dimenticare, è certamente quella dell’uomo che io ricordo come “L’impiegato fantasma”…
Quella mattina Roger si svegliò alle 6 in punto come sempre e si preparò per la solita lunga giornata di fatiche lavorative. Come impiegato, da poche settimane assunto presso un’importante compagnia assicurativa, ci teneva molto a fare una buona impressione, anche se lo stress degli ultimi tempi lo stava mandando fuori di senno. Per non fare tardi s’incamminò con passo spedito verso la fermata degli autobus del suo quartiere di desolata periferia.
Erano da poco passate le 6.30, il sole stava per sorgere e sembrava tutto tranquillo. Poco prima di svoltare l’angolo, però, vide il suo collega Mark che si accingeva ad attraversare la strada: accennò un saluto ma l’altro impiegato non si accorse della sua presenza; al contrario proseguì indifferente per la sua strada, persino quando Roger si mise di fronte a lui per essere sicuro di essere visto.
Anche gli altri pendolari in attesa alla fermata non notarono la sua presenza: era come se fosse diventato invisibile. In un momento di autoironia pensò: «E se lo fossi diventato davvero?» Per convincersi della stupidità di questa teoria si specchiò nella lastra di acciaio della fermata, accorgendosi però che non vedeva traccia del suo riflesso.
Evidentemente nella frenesia della routine quotidiana non si era reso conto di essere diventato trasparente. Colto dal panico osservò le sue mani e notò che iniziava ad intravedersi una nebbiolina, simile all’ombra di uno spettro, come quelli che si vedono al cinema… Sembrava incredibile, ma si stava trasformando in un fantasma! Passati pochi istanti, alcune grida di terrore fecero capire a Roger che anche altri pendolari si erano accorti del paranormale fenomeno. Quando tentò di rassicurarli spiegando che anche lui era un normale impiegato, capì di avere assunto una voce cupa e tremolante, davvero “spettrale”. Ovviamente questo non fece altro che aumentare la paura a tal punto che tutti i presenti fuggirono nonostante fosse arrivato il pullman. Per la rabbia, Roger tirò un pugno al cartello della fermata, ma la sua mano lo oltrepassò da parte a parte.
A questo punto si rese conto della gravità della situazione: non avrebbe mai potuto presentarsi in ufficio in quello stato! Pensò comunque di tentare, per non far tardi al lavoro. La sua decisione si rivelò presto un completo fallimento, poiché, dopo un fuggi fuggi generale tra gli impiegati, il suo capo lo riconobbe e, credendo l’ “apparizione” uno scherzo, lo licenziò senza pensarci due volte.
L’impiegato si sentì mancare: tutto il suo impegno di mesi rovinato in una sola mattinata. E il fatto più grave era che si ritrovava solo, senza nessuno che lo potesse aiutare. Con tutte quelle preoccupazioni per la testa svenne, cadendo sul pavimento. Quando si risvegliò, era nel suo letto, tutto bagnato di sudore ed ansimante: erano le 6 in punto ed era l’ora di andare al lavoro.
Doveva fare in fretta, per non perdere l’autobus. Era agitato e confuso e mentre tentava di spiegare a se stesso che il sogno non era altro che un simbolo della frenesia lavorativa a cui era ormai abituato, si alzò e picchiò la testa contro la mensola sovrastante il letto. In una normale giornata avrebbe imprecato per il dolore, ma non quel giorno: era così contento di essere tornato di nuovo il “solido” impiegato di sempre.
Roger avrebbe poi passato alcuni mesi stressanti prima di riprendersi dallo shock ma, dato che dopo più di tre anni è ancora qui, sento di aver fatto un buon lavoro. Lui stesso dice di essere stato soddisfatto dalle sedute con me… Devo ammettere che faccio lo psicanalista anche per questo: riuscire ad aiutare le persone preoccupate per i loro sogni è decisamente gratificante.
Ora che ci penso, però, ricordo che ci fu anche un caso in cui il sogno di uno dei miei pazienti l’aveva addirittura portato a vedere il mondo con occhi diversi. Mi pare che lui si chiamasse… No, non Scott… Ah, sì! Smith! Quello che si occupò dei nominativi per i tagli aziendali.
Il suo fu un sogno davvero particolare… Quel giorno Paul non avrebbe voluto recarsi in ufficio. Non era un giorno qualsiasi. L’impiegato cinquantenne aveva sempre considerato il suo lavoro stancante, noioso, deprimente. L’aveva anche odiato, quei giorni in cui era tornato a casa tardi e sfinito. Aveva sempre detestato il suo capo ed i colleghi antipatici. Il suo compito non gli era mai sembrato utile: Paul, da oltre trent’anni, si occupava di calcoli di cui nemmeno lui conosceva lo scopo.
In quel freddo stanzino che era il suo ufficio si limitava ad eseguire gli ordini… Un lavoro odiato fino alla morte durante l’ultimo Capodanno passato a fare gli straordinari. Ma quel giorno no, niente di tutto questo. Quel giorno sarebbe stata resa nota la lista dei tagli al personale. Anche lui rischiava il posto.
Rischiava di finire in mezzo ad una strada: senza parenti ed amici, chi l’avrebbe sostenuto?
Chi avrebbe assunto uno come lui? Con l’età che aveva, poi…
Gli rimaneva solo la speranza di non essere in quella fatale lista. Quel giorno si era reso conto che, per quanto lo odiasse, ci teneva a quel lavoro che era l’unica cosa che gli rimaneva.
Paul entrò in ufficio come sempre, salutò i colleghi e sistemò la valigetta accanto alla sua
scrivania. Cercava di non dare nell’occhio, cercava di mascherare, come tutti, il suo terrore, perché di terrore si trattava, non di semplice paura. Alle dieci in punto si diresse con i colleghi verso la sala riunioni dove il sig. Smith, direttore dell’azienda, avrebbe comunicato i licenziamenti.
La riunione iniziò con il solito noioso discorso introduttivo, ma quel giorno tutti erano attenti
ed irrequieti. Nessuno si sarebbe distratto quella mattina. Nessuno se lo sarebbe potuto permettere. L’aria immobile della stanza sembrava in attesa del fatidico momento; persino il grande orologio, che dominava la sala alle spalle del direttore, si era fermato. Nessuno fece caso a questi dettagli e l’agitazione crescente raggiunse il culmine al momento della consegna delle buste. Paul ricevette la sua come tutti gli altri; nell’istante in cui le sue mani toccarono la carta, non poté resistere, aprì la busta e ne osservò immediatamente il contenuto.
Tutti gli impiegati lessero e sembrarono terminare contemporaneamente. Paul alzò lo sguardo incrociando quelli increduli dei suoi colleghi… Com’era stato possibile? «Com’era stato possibile?» Esclamò il sig. Smith, svegliandosi di soprassalto. Proprio quel giorno in cui avrebbe dovuto licenziare tutti quei dipendenti, si era presentato un simile sogno…
Il Direttore si alzò dal letto ed iniziò a camminare per la stanza. Quei tagli, pensò, avrebbero certo portato beneficio all’azienda, ma ora lui si sentiva un mostro e non riusciva a non pensare al destino di Paul e di tutti gli altri suoi colleghi. Un gesto impulsivo: prese la lista dei licenziamenti e la strappò.
Ora si sentiva più leggero, sollevato e non vedeva l’ora di essere in azienda per poter consegnare quelle buste.
“La politica dei licenziamenti è stata abbandonata anteponendo il benessere dei dipendenti al bisogno di maggiori profitti”.
Dopo alcuni momenti d’incredulità i dipendenti urlarono di gioia e festeggiarono lo scampato pericolo. Il lavoro era salvo, e loro pure. Vedere quelle facce contente riempì di felicità anche il Direttore, una felicità che non aveva mai provato. Fu così facile unirsi a loro per condividere la gioia dei festeggiamenti. Non se ne sarebbe mai pentito. Il taglio l’aveva dato. Al suo passato.
Già…
Smith era stato per anni uno dei dirigenti più rigidi di questa compagnia, ma grazie a questo sogno
aveva sentito la necessità di cambiare. Nel suo percorso con me aveva scoperto di comandare non dei semplici numeri, ma persone come lui, gente con speranze per il futuro, ideali…
Come Karen, la segretaria che un anno fa venne da me per raccontarmi del suo sogno. Un sogno di una disarmante semplicità, realistico ma impossibile allo stesso tempo. Il sogno di un mondo perfetto.
In un paesaggio quasi fiabesco sorgeva la sua casa, insieme ad altre piccole abitazioni tutte in
legno, come delle piccole baite di montagna. Era mattino: dalle grandi finestre della sua luminosa stanza, la ragazza riusciva a vedere il sole iniziare a filtrare tra gli alberi del bosco di castagni che da molti secoli abitava le dolci colline circostanti.
Si alzò dal letto silenziosamente, per non disturbare suo marito. Sapeva che la luce avrebbe presto svegliato anche lui, con la stessa calma e dolcezza di ogni giorno. Si preparò con tranquillità per andare al lavoro, salutò il loro figlio ancora addormentato con un bacio sulla guancia e partì in sella alla sua bicicletta, lungo la tortuosa stradina immersa nella foresta.
Poco dopo una voce a lei familiare attirò la sua attenzione: si voltò e vide la sua collega e vicina di casa Sarah uscire dal cancello del suo steccato. Si fermò un istante prima di ripartire in compagnia del suo sorriso. Durante i due minuti di viaggio all’ombra degli alberi rossicci, scambiarono alcune osservazioni su quanto quell’autunno fosse mite e quanto le foglie fossero brillanti.
Arrivate in ufficio notarono che, per la bella giornata, anche molti altri colleghi erano arrivati presto e, nonostante l’azienda non avesse orari rigidi, erano già al lavoro.
Dopo aver salutato i vicini di scrivania, anche Karen si preparò per la mattinata: estrasse i suoi disegni e li posizionò sul tavolo. La sua idea tornava a prendere forma e lei poteva finalmente continuare il progetto iniziato la settimana prima. Era così felice di essere riuscita a diventare designer, coronando così il sogno dell’infanzia. Ed era veramente fantastico il posto in cui si ritrovava a lavorare e a vivere: quelle colline alberate nel sud dell’Irlanda erano davvero un paradiso in terra.
La sua vita era meravigliosa, aveva una famiglia felice, dei colleghi e degli amici simpatici e sempre sorridenti.
Era tutto bellissimo ed incredibile, come nelle fantasie di un bambino o nell’immaginazione di
un adulto. Come nel sogno di un mondo perfetto. Sogno purtroppo opposto alla realtà. Nella dimensione concreta la vita di Karen era veramente mediocre e triste. Lei stessa trovava difetti e problemi in ogni cosa: nella sua solitudine, nel suo appartamento, nel suo noioso lavoro…
E penso che difficilmente avrebbe potuto avere una visione meno pessimistica del mondo. Io la capivo, sapevo cosa voleva dire provare tutta quella rabbia e quella frustrazione, anche io come lei mi sentivo demotivato ed inerme di fronte alle avversità della vita. Anche io ero terribilmente solo.
Fu forse anche per questo che dopo alcuni mesi di terapia iniziai a provare qualcosa per lei. Eravamo così simili, riuscivamo a capirci a vicenda; c’erano alcune volte in cui lei con me accennava un mezzo sorriso… Però, forse per egoismo o forse perché come medico non avrei potuto, non le confessai mai i miei veri sentimenti: rimasi sempre molto professionale. In qualità di terapeuta cercai di aiutarla, di farle cambiare idea, di farla stare meglio.
Il mio personale sogno sarebbe stato quello di allontanarla dal buio della depressione, di farla tornare a ridere, ad essere felice… Sarebbe stata splendida una nostra vita insieme… Ma dentro di me sapevo che anche la mia fantasia non sarebbe mai divenuta realtà. Per mesi provai a combattere la triste sorte che si avvicinava inesorabile, per mesi ogni mio sforzo fu per difenderla dal destino, fino a quel giorno. Quel giorno in cui mi comunicarono che se n’era andata: aveva deciso di farla finita.
Fu per me un durissimo colpo: passai due settimane rinchiuso in casa, in alcuni momenti meditando, in altri sfogando la mia rabbia contro ciò che mi capitava a tiro.
Arrivai anch’io a pensare di seguirla in un folle gesto, ma no... Non sarebbe dovuta andare così! Pensai ai miei pazienti, a tutti quelli che avevo aiutato, a quelli che ancora mi ringraziavano per
strada, in ufficio… Pensai che a loro dovevo ancora tanto e che non sarebbe stato giusto lasciarli. Affrontai quindi il dolore e tornai in ufficio, al mio lavoro, al mio solito impiego.
Tornai ad ascoltare le storie dei miei pazienti, a consigliarli su come risolvere i problemi, ad esplorare con loro ogni aspetto della vita. Tornai ad ascoltare idee, racconti e fantasie, ma con la consapevolezza che molte illusioni non sarebbero mai divenute realtà, che non avrebbero cambiato il mondo. Che sarebbero per sempre rimaste sogni, solamente i Sogni di un impiegato…
Eldar