La verità è che in quell’epoca Trito da Malacarne era il più feroce di tutti e risalendo dal sud dell’Italia lasciava dietro di se solo fosforo per i campi e abbruciacchiava gli agnelli ungendoli con olio pugliese. La soldataglia era terribile: sputava per terra e stava lì “avvedere” come finiva, e se “affiniva” bene poi ci faceva un campo di segale. Addirittura si dice che addomesticasse le cicale, per favorire la pennichella nel pomeriggio, quando non c’era da menar le mani. Brutta gente, abituata ad annusare la terra, quella grassa, non la sabbia. Su al Nord ne ebbero sentore e per intanto li chiamarono terroni. E questi manco per le palle, tanto che quando, ad alcuni di loro, gli capitò d’assaggiare la polenta, sai le risate che si fecero!
Ma Trito da Malacarne aveva intuito che i gotici, così chiamati perché quando comunicavano tra loro dicevano sovente ota ti ota mi ota da sura no l’è ota da bas, per quanto rozzi, rappresentavano comunque una forza bellicosa che aveva inventato il risotto e le castagne secche, queste ultime arma micidiale negli scontri corpo a corpo. Mosse le sue truppe alla volta di Roma.
Era allora pontefice della Città Santa Equivocando I, mezzo cremasco mezzo milanese, non se mai capito un cazzo del perché di quel nome, però di sicuro si sa ch’era nato sotto il segno delle palme da dattero. Disse: “Che scassa figù che è ‘sto Trito da Malacarne.” “Santo Padre” sussurrò il camerlengo, “anche Tarquinio Malmostoso della Risera si sta muovendo alla volta delle Sacre Mura.”
“Figa ragazzi, ma il Papato non lo si poteva fare nel Madagascar?! Insomma, datevi un po’ da fare.”
Tarquinio Malmostoso della Risera sapeva dei propri limiti. Le sue truppe si muovevano come onde furibonde negli acquitrini, ma in una amichevole con gli Spavaldi della Pro Vercelli, giocata su terra battuta, ne presero una cavagnata: sette a zero. Che poi, per rialzare il morale, gli toccò di aggiornare la busta paga di tutti quanti. Aveva bisogno di una sonante vittoria per rimpinguare i forzieri, quindi, niente di meglio che mettere a ferro e fuoco le acque del Tevere.
Stagli attento, pensò con un sorrisetto il papa, che adesso arriva il più furbo degli àrticiôcch (espressione milanese mutuata dal francese e che sta per carciofo). Sono proprio curioso di vedere come fa a dar fuoco alle acque, quando è risaputo che sulle acque, tutt’al più, ci si può camminare, ma solo in determinati luoghi e condizioni.
Tarquinio Malmostoso della Risera si rese conto dell’errore e disse: “Miei prodi, li aspetteremo sul delta del Polesine. Acque basse e pesce a gogò.”
Trito da Malacarne non abboccò: “Fin la? Dove ci sono le zanzare che sembrano elicotteri? Per me possono andare a cagare e se vogliono fare la guerra li aspettiamo sul tavoliere delle Puglie.”
Passarono le epoche e con loro gli eserciti di Spagna, Francia, Austria-Ungheria, di Prussia e anche d’Olanda e Paesi Bassi al seguito, per non dire di banditi e predoni, ma loro, granitici, fermi lì, che la prima mossa la deve fare quello là. Le strategie dei due condottieri vennero esaminate anche dal generale Carl von Clausewitz che, nel suo famoso trattato “Wom Kriege”, ebbe a scrivere: “Qualora i nostri eserciti dovessero discendere la Penisola, portiamoci le pinne, il fucile e gli occhiali.”
Amen.
Beppe Cerutti