Con la consapevolezza di dare un’indicazione scontata, comincio con questa affermazione: l’utilizzo di internet fa parte della nostra quotidianità sia nel mondo del lavoro che nell’ambito più intimo dei rapporti interpersonali e sociali in genere.I social network in particolare vengono correntemente utilizzati sia per fini commerciali, sia per informare qualcuno dell’ultimo aperitivo o semplicemente per parlare con gli amici, come una volta si faceva solo al telefono, al bar o durante una passeggiata. Un uso quotidiano e “sregolato” di questi strumenti può portare però a commettere delle ingenuità che possono costare caro, portandoci a commettere un reato o a subire le conseguenze delle cattive intenzioni di malintenzionati incontrati in rete.

Pensiamo ai commenti pubblicati su Facebook inerenti un determinato soggetto ed accessibili a una moltitudine di persone. Il rischio è quello di commettere il reato di diffamazione, qualora si offenda pubblicamente la reputazione di un soggetto. Posto che pubblicare un commento offensivo, nominando esplicitamente le generalità di una persona determinata quale oggetto del commento, può essere considerato un rischio accettato dal “commentatore”, si potrebbe pensare di aggirare l’ostacolo semplicemente non nominando il soggetto destinatario del commento. Ebbene non è così. Neppure sarebbe rilevante il fatto che (come nel caso di Facebook) il commento possa essere visibile solo ai ad. “amici” dell’autore.

Recentemente la Corte di Cassazione sez. penale (sentenza n. 16712/2014) ha preso in esame un caso simile.In particolare, nonostante non ne apparissero il nome e il cognome, la Suprema Corte ha ritenuto che il destinatario del commento offensivo fosse comunque identificabile, seppur da parte di una ristretta cerchia di persone, a causa di alcuni generici riferimenti alla sua persona contenuti nel testo medesimo del commento. Infatti la Corte ha considerato sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa.

La Corte ha evidenziato che il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. Ed ai fini di detta valutazione non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network.

La sentenza n. 24431/2015 della Cassazione ha poi ribadito il concetto per cui la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone. È chiaro pertanto che un utilizzo sregolato degli strumenti forniti dai social network può portare a conseguenze poco piacevoli.

 

Anche la creazione di un falso profilo è una pratica che è stata riscontrata. In un particolare caso la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25774/2014, ha stabilito che integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494 c.p.) la condotta di colui che crea ed utilizza un “profilo” su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative. Risulta chiaro che l’utilizzo della rete, anche in forza delle sue risorse e possibilità sostanzialmente illimitate, richiede un grado di cautela sia al fine di agire nei limiti legali, sia per tutelarsi dalle cattive condotte di terzi.

 Francesco Garghentini

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