Allora come è il nuovo disco degli Iron? Me lo hanno chiesto in tanti in questi giorni. Non so perché l’attesa per l’uscita e l’ascolto di The book of souls si è rivelata così alta. Forse per la malattia che ha colpito Bruce, forse perché il disco è stato presentato da subito come un opera mastodontica e particolare (92 minuti, un pezzo da 18 minuti), forse perché dopo gli ultimi dischi la speranza che la vergine di ferro mettesse assieme un disco decente iniziava a diventare sempre più flebile.
Quindi mi piace? Si mi piace. Non so se me lo sto facendo piacere a forza di ascolti e lettura di recensioni entusiastiche. Ma mi piace. Quindi farò una recensione, stile quella iper accurata fatta per Endless river dei Pink Floyd, no. Troppo cuore. Ma qualcosa volevo scrive lo stesso. E allora in questo 2015 che pare il 1986 per uscite di gruppi dinosauro, per i concerti che sto vedendo e vedrò, cosa di meglio che una sera che pare uno dei capitoli di Medalllo, il mio libro che narra quell’anno a Crema?
Ospite della serata, cameretta the verde, otto e venti già all’ascolto, lord Mauro Plizzari. Il vinile pronto per essere spolverato e appoggiato sul piatto. Si era discusso nei giorni precedenti sull’opportunità o meno di giudicare un opera tanto mastodontica tramite ascolti spot su Spotify.
Insomma ci sarebbe da aprire un dibattito. La mia riscoperta del vinile in questi ultimi anni, mai del tutto abbandonato ma ora tornato vivo e vegeto, mi sta facendo gustare di più i nuovi acquisti. Non perché io abbia un mega stereo da audiofilo che permette di ascoltare la musica come se il gruppo fosse in camera tua. No. E proprio la ritualità della cosa.
Tirare fuori il vinile, pulirlo, non potere skippare facilmente i pezzi, girare lato ogni 20 minuti. Una cosa che ha dimostrato di essere vera anche nell’ascolto col Plitz. Il primo dischetto dell’uiscita degli Iron è stato sentito in vinile, tre lati da girare in 50 minuti. Il secondo in cd, si ho preso anche l’edizione a libro in cd, sono un feticista che ci posso fare.
La differenza di approccio si è mostrata palese. I primi tre lati sentiti e commentati con attenzione, il secondo disco un po’ scivolato via, a parte il mio richiamo sul pezzo finale di 18 minuti, Empire of the clouds, che anche Lord Plizzari ritiene essere un gran pezzo. Giudizio finale? Alti e bassi, un paio di pezzi davvero pessimi, su tutti l’unico firmato da Steve Harris, The red and the black, che contiene idee per un pezzo di 3 minuti e ne dura 13, “uno stillicidio” l’ha definito l’amico. E ha ragione.
Per il resto la serata meriterebbe un racconto a se. Tra memorie andate, commenti su testi e musica e considerazioni varie. Ho congedato il Plitz facendogli riposare le orecchie, dopo la valanga di metal pomposo maideniano, con un paio di pezzi da London 0 Hull 4 degli Housemartines, “non sono completo io, preferisco il metal”, poi smadonnando perché non aveva un passaggio per tornare a casa, abita a 500 metri da casa mia, se ne è andato.
Emanuele Mandelli