Il diritto comunitario, particolarmente ricco di disposizioni in materia alimentare, ha avvertito solo in tempi recenti la necessità di fornire la nozione giuridica di “alimento”.
Quando, in passato, sono state ravvicinate le disposizioni nazionali relative a specifici prodotti alimentari, mediante un’armonizzazione di tipo verticale, è stato esclusivamente precisato il significato del termine di volta in volta impiegato.
La lacuna evidenziata, oltre ad implicare un approccio frammentario ai problemi connessi alla circolazione degli alimenti in àmbito comunitario, rischiava di determinare un’applicazione della disciplina di settore variabile a seconda del concetto di derrata alimentare che ciascuno Stato adottava.
Quest’ultimo inconveniente poteva più facilmente verificarsi proprio in relazione ad una normativa, suscettibile della più ampia applicazione, poiché tesa a regolare, con un’armonizzazione di tipo orizzontale, i requisiti igienici o l’uso di sostanze, come gli additivi, in tutti gli alimenti. È, infatti, evidente che, in assenza di una definizione comune di tale concetto, ciascun Paese membro era in grado di stabilire l’àmbito di applicazione delle regole comunitarie, fissandone uno proprio.
Gli svantaggi conseguenti alla mancata definizione del termine in esame sono parsi inaccettabili, in particolare, in sèguito alla crisi determinata, sotto vari profili, dal cosiddetto morbo della “mucca pazza” o BSE ed alla scoperta di un suo possibile collegamento con una grave patologia umana avvenuta nel corso del 1996. Poiché tali avvenimenti avevano reso urgente ripristinare un clima di fiducia tra i consumatori che, con gravi riflessi economici, era stato compromesso, fu avvertita la necessità di porre in essere provvedimenti in grado di fornire la certezza che le istituzioni comunitarie avrebbero posto al centro della loro attenzione la salute dei cittadini.
Il proposito di adottare, a tal fine, norme tese a garantire soprattutto la sicurezza di qualsiasi prodotto alimentare ha fatto emergere il problema della loro definizione, in quanto essa costituiva una indispensabile premessa all’applicazione uniforme della disciplina comunitaria diretta a proteggere la salute dei consumatori e, quindi, anche una condizione essenziale per attribuire una reale efficacia della tutela che si intendeva predisporre.
Non è, pertanto, casuale che la Commissione abbia formalmente posto il tema della nozione giuridica di prodotto alimentare nell’aprile 1997, appena pochi mesi dopo la fase più acuta della suddetta crisi, in occasione della Comunicazione sui princìpi generali della legislazione alimentare, il c.d. “Libro verde”, che inaugura un nuovo “approccio”, caratterizzato dal rafforzamento della protezione della salute dei consumatori nelle politiche comunitarie.
Il cammino comunitario, come era prevedibile, ha preso le mosse dall’autorevole definizione di derrata alimentare del Codex Alimentarius.
L’ampia rappresentatività della Commissione che presiede alla formazione delle norme alimentari contenute nel Codex e la cui attività è disciplinata da uno Statuto e da un Regolamento approvati agli inizi degli anni sessanta dalla F.A.O. e dall’O.M.S., la complessa procedura prevista per l’approvazione delle norme del Codex, che assicura un loro esame approfondito, e la circostanza che uno degli scopi principali della Commissione è rappresentato dalla tutela della salute dei consumatori rendono il Codex uno strumento che, se pur non giuridicamente vincolante, costituisce, tuttavia, un notevole punto di riferimento per l’attività degli Stati e delle Organizzazioni Internazionali.
Per derrata alimentare il Codex intende qualsiasi sostanza trattata, parzialmente trattata o allo stato naturale, destinata all’alimentazione umana. Sono espressamente inclusi in tale concetto le bevande, il chewing-gum e tutto ciò che è utilizzato nella fabbricazione, preparazione e trattamento degli alimenti, mentre ne sono esclusi i medicinali, i cosmetici e il tabacco.
Il “Libro verde” della Commissione, pur partendo dal significato riportato, opera una significativa estensione della nozione di alimento fornita dal Codex, riferendola ai prodotti destinati non già “all’alimentazione”, bensì “all’assunzione da parte dell’uomo”.
In sede comunitaria si è voluto prescindere, perciò, dal valore o dalla funzione nutritiva della sostanza per considerare esclusivamente il dato fisico, costituito dalla possibilità che essa transiti nel tratto gastrointestinale dell’individuo. Conseguentemente, sono considerati alimenti, oltre ai prodotti assunti per via orale, anche quelli introdotti per inalazione o somministrati per intubazione gastrica. Risultano, invece, escluse le sostanze introdotte per via perenterale nel flusso sanguigno, come quelle destinate all’uso industriale.
In virtù della definizione in esame, inoltre, qualunque elemento, presente nel prodotto a qualsiasi titolo, deve essere considerato alimento in quanto destinato a passare nel tratto gastrointestinale dell’uomo.
La portata della definizione è, secondo il “Libro verde”, particolarmente ampia, in quanto volta ad includere tutte le sostanze utilizzate per la produzione, la preparazione, la trasformazione dei prodotti alimentari, comprese le materie prime, gli ingredienti, i contaminanti e i residui.
Un’ulteriore e definitiva precisazione del concetto di “alimento” è stata successivamente effettuata dall’art. 2 del Regolamento CE n. 178/2002, che ritiene il termine equivalente a quello di “prodotto alimentare” o di “derrata alimentare”.
Secondo tale norma l’alimento è, in primis, una sostanza o un prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato. È stato in tal modo invertito, come anche nella definizione del Codex Alimentarius, il tradizionale rapporto tra produzione e trasformazione, anteponendo quest’ultima alla prima, in considerazione della circostanza che proprio la manipolazione del prodotto – e, quindi, l’allungamento della catena alimentare – dà luogo alla necessità di un controllo su tutte le fasi dell’attività. Anche l’alimento non trasformato è, comunque, compreso, al pari di quelli trasformati, nel concetto di prodotto alimentare, tale per cui si assiste, in sostanza, alla parificazione, ai fini della sicurezza alimentare, degli standard di sicurezza delle strutture agricole che producono l’alimento a quelli delle industrie di trasformazione.
Il significato della distinzione tra trasformazione totale e parziale dovrebbe basarsi, per analogia con quello di “prima trasformazione” di cui all’art. 32 del Trattato CE, soprattutto su considerazioni di carattere economico. È possibile individuare una trasformazione parziale nei casi in cui il costo del prodotto manipolato si discosti in modo significativo da quello della materia prima, mentre quando il valore aggiunto della lavorazione, incorporato nel prezzo, sia del tutto superiore e neppure paragonabile a quella del prodotto base si verificherà una trasformazione totale.
Così, ad esempio, la cottura dell’alimento non determina alcuna sua trasformazione, mentre una trasformazione parziale è quella del grano, dal quale si ottiene la farina. La trasformazione totale è, invece, quella subìta dal grano al fine di ottenere la pasta.
Occorre, inoltre, secondo l’art. 2 in esame che conferma il concetto già espresso nel “Libro verde”, che il prodotto sia “destinato ad essere ingerito” o che si preveda “ragionevolmente che possa essere ingerito da essere umani”.
La relazione illustrativa che accompagna la proposta di Regolamento chiarisce che quest’ultima dizione è stata introdotta al fine di “garantire che una sostanza – come, ad esempio, l’olio di palma – che potrebbe essere inserita nella catena alimentare, ma anche essere utilizzata in altri settori industriali, venga trattata con la stessa attenzione riservata agli alimenti fino a quando non risulti chiaro che non diventerà un genere alimentare”.
In ogni caso dovrà trattarsi di un prodotto destinato o destinabile all’ingestione che, quindi, può passare nel tratto gastrointestinale di un essere razionale. Per tale ragione l’ultimo comma dell’art. 2 esclude dal novero degli alimenti i vegetali prima della raccolta, gli animali vivi (a meno che, come nel caso delle ostriche, siano preparati per l’immissione sul mercato ai fini del consumo umano), i mangimi e i cosmetici. Questi ultimi prodotti, in particolare, non possono essere considerati alimenti in quanto, per definizione, non destinati ad essere ingeriti, ma ad essere “applicati nelle superfici esterne del corpo umano (…), oppure sui denti o nelle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, proteggerli per mantenerli in buono stato, modificare l’aspetto o correggere gli odori corporei”.
Nel concetto di alimento così precisato, il secondo comma dell’art. 2 comprende le bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza, inclusa l’acqua, intenzionalmente incorporata negli alimenti nel corso della loro produzione, preparazione o trattamento.
Mentre le bevande, indipendentemente da una espressa previsione, sarebbero state comunque da includere nel concetto di alimento in quanto destinate ad essere ingerite, la gomma da masticare – almeno nella parte riguardante la masticazione – non è destinata a passare nel tratto gastrointestinale dell’uomo e, quindi, la sua inclusione tra gli alimenti pare costituire una cautela suggerita al legislatore comunitario dalla particolarità dell’uso di tale prodotto.
A tal punto rimangono ancora da analizzare i motivi che hanno comportato l’esclusione dei medicinali, del tabacco e delle sostanze stupefacenti o psicotrope che, essendo destinate ad essere ingerite, avrebbero teoricamente dovuto essere comprese tra gli alimenti.
Poiché il concetto comunitario di “alimento” ha volutamente inteso evitare qualsiasi riferimento, presente nel Codex Alimentarius, alla destinazione all’alimentazione di una derrata, non pare sostenibile che l’esclusione dei suddetti prodotti sia stata determinata dal fatto che essi non possiedano alcun valore nutritivo.
L’introduzione di quest’ultimo requisito, infatti, porrebbe in rilievo la destinazione alimentare di un prodotto che, invece, il diritto comunitario ha inteso omettere.
In realtà l’esclusione pare sia dovuta al fatto che i medicinali e il tabacco, a differenza degli alimenti che, di per sé, hanno un effetto “neutro” sulla salute dell’uomo, possiedono, invece, l’intrinseca capacità di incidere su quest’ultima.
Conseguentemente, mentre è sufficiente assicurare che gli alimenti non siano nocivi, occorre – per il tabacco e i medicinali – dettare regole particolari in funzione dei loro specifici effetti sulla salute individuale.
È opportuno avvertire che è un problema delicato distinguere tra medicinali e alimenti che possiedano effetti curativi.
In linea generale il diritto comunitario appare propenso ad ampliare il concetto di medicinale, includendovi non solo quelli che hanno reali effetti terapeutici (c.d. definizione di medicinale “per funzione”), ma anche quelli che sono tali solo per “presentazione”, cioè, in quanto sono presentati come aventi proprietà curative o profilattiche delle malattie umane.
La giurisprudenza si è, poi, occupata a più riprese della distinzione tra integratori alimentari e medicinali, individuando alcuni criteri discriminanti, come quello costituito dal grado di concentrazione delle sostanze base dell’integratore. Simili elementi, peraltro, hanno valore meramente indicativo della natura del prodotto che deve, in definitiva, essere individuata e valutata caso per caso.
L’esclusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope dal concetto di alimento è dovuta al fatto che, per esse, il legislatore comunitario non si pone tanto il problema dell’innocuità poiché, più radicalmente, tende a contrastarne la diffusione.
(5-continua)
Donatella Colangione
Laureata in Giurisprudenza ad indirizzo specialistico in Dir. Internazionale a Bari e Dottore di ricerca in Dir. Pubblico a Pavia con borsa di studio sulla sicurezza agroalimentare.