Il continuo processo di trasformazione che The Wall ha avuto dalla sua data di uscita, 30 novembre 1979, sta proseguendo con lo sbarco nelle sale cinematografiche di tutto il mondo del film Roger Waters The Wall. Che l’opera angolare del musicista inglese fosse una parte fondante della sua vita, e avesse un forte impatto psicanalitico, lo si era intuito sin dall’uscita. Ma mai come adesso è chiaro.
Non dico che a 70 anni Waters sia un uomo pacificato con se stesso, ma vederlo alla fine del film nell’emozionante addendum che rappresenta la chiacchierata a due con Nick Mason, batterista dei Pink Floyd per i 3 che hanno vissuto su Marte negli ultimi 40 anni, mentre ride delle sue paure e della sua storia, mette una sorta di allegria.
Ma più forte per comprendere il processo di cambiamento subito, con un accelerazione terribile nel tre anni di questa tournée, sono le scene fuori concerto inserite nel film che fanno da spina dorsale politicizzando ulteriormente il messaggio. Scene di un emozionalità enorme. Un uomo adulto di 70 anni che piange leggendo la lettera di un commilitone del padre morto ad Anzio nel 1944. Ma soprattutto quel terribile momento in cui un amico di infanzia davanti alla tomba del nonno, caduto durante la prima guerra mondiale quando il padre di Roger aveva due anni, gli dice: “Due guerre che non hanno lasciato il ricordo dei padri a due generazioni di figli” e lui quasi sorpreso dalla considerazione dice solo: “gia”.
Si perché il viaggio in Aston Martin, ora accompagnato da un amico, ora dai figli e dal nipote, ora da solo o con inquietanti presenze, che porta Waters dall’Inghilterra attraverso la Francia e l’Italia a sbarcare sulla spiaggia dove il padre mori e alfine a suonare con la tromba il motivo circolare di Outside the wall, che apre e chiude il concerto, davanti al memoriale dei soldati inglesi caduti a Cassino, è di un emozionalità spietata.
Fa passare quasi in secondo piano le spettacolari immagini del concerto, presentato dall’inizio alla fine ma con questi inserti di viaggio che, appunto, ne stravolgono per l’ennesima volta il senso finale. Da parabola sull’incomunicabilità di una rockstar a denuncia contro la crudeltà di tutte le guerre, con i titoli di coda che mostrano una carrellata di volti di persone morte in guerra, in tutte le guerre appunto, da sconosciuti caduti a figure epiche come Chico Mendez passando per storie che conosciamo bene come Nassiriya, ma immagino che in ogni nazione dove il film verrà visto gli spettatori riconosceranno le loro storie.
Il concerto per chi l’ha visto dal vivo, come il sottoscritto, nei tre anni di date tra palazzetti e stadi, è un’opera mastodontica e spettacolare. Ma ci si rende conto forse nel film che il pubblico è parte integrante della messa in scena. Massa adorante nelle due violente In the Flash, ma soprattutto con un volto preciso di persone che lo vivono dentro. Ed in questo i bei primi piani su ragazzi normali quasi trasfigurati dalla musica segna crediamo la pacificazione di Waters col pubblico, che ricordiamo con The Wall aveva voluto davvero allontanare, visto che l’idea nasce proprio da uno sputo in faccia ad uno spettatore troppo invadente, come ricordato nella parte finale.
Che quest’opera continui a far parlare di se a oltre 35 anni dalla sua uscita è un miracolo che la rende universale. E’ particolare ricordare come Waters forse avesse ben chiaro in testa quanto lo fosse, visto che accettò di cedere sul nome Pink Floyd per mantenere i diritti su The Wall nella triste vicenda giudiziaria di fine anni ’80 che vide i membri della band contrapposti.
Forse adesso però è giunto il tempo di consegnare l’opera alla memoria per la classicizzazione lasciando che se è il caso faccia il suo ulteriore percorso anche oltre i limiti di creatività e di vita di chi l’ha composta, suonata, ascoltata ed amata in questi suoi primi 36 anni di vita.
Emanuele Mandelli